Come raccontare un autistico
Oggi pomeriggio è venuta a casa mia Stella Pende con una troupe televisiva. E’ un’ amica da anni Stella, nel mio libro è pure evocata, era lei al centro del cenacolo di giornalisti/e, alcuni/e della migliore stronzetteria milanese, con cui dividevamo un pezzo di spiaggia della Sardegna durante due o tre vacanze estive al tempo in cui Tommy era piccolissimo. Fieramente smutandato lo mandavamo a seminar panico tra le mamme dei suoi coetanei ciarlieri e poliglotti. Sono però contento che, alla fine, la prima volta in cui io parlo di autismo e di mio figlio davanti a una telecamera, dall’altra parte ci sia una persona che conosco bene.
Ne farà una puntata del suo programma che inizierà ad aprile, quindi c’è tempo per vedere cosa sia venuto fuori, ma è certo che prima o poi dovrò pormi il problema di come raccontare in tv, se me lo chiederanno, questo mio libro. L’ autismo è difficilmente raccontabile per immagini, per questa ragione prevalgono i vecchi luoghi comuni di Rain Man e quelli, ancora peggiori, di chi parla di “autistico” a sproposito associando il termine a giovani serial killer o accompagnatrici di bella presenza.
Altri vorranno girare me con Tommy, vedere lui nel suo quotidiano, cercare riscontri nella realtà a quanto ho scritto, non potrò tirarmi indietro e dovrò continuare a tempo reale il mio racconto pubblicato, per gli stessi motivi per cui mi sono convinto di iniziarlo. Temo solo di sentirmi il magnaccia di mio figlio, ci starò attento e cercherò di limitare al massimo le esposizioni che a naso sentirò improprie. Non posso aver fatto per anni il saputello fustigante ogni esposizione strumentale di casi quasi umani, il dissacratore di parti in diretta, di funerali con l’ applauso, di tricefali ammaestrati ecc…E poi portare in giro il mio figlio capoccione come fosse una madonna pellegrina.