La neurodiversità che inquieta: una professoressa risponde alla "collega" spaventata
Pubblichiamo una lettera (un piccolo saggio sarebbe più esatto dire…) della professoressa Anna Maria Piemonte in risposta a quanto scritto a TEMPI dalla prof Margherita Pellegrino, E da noi commentato ieri. La professoressa Pellegrino sostiene che nella scuola Italiana in particolare si esageri a considerare una patologia quei disturbi specifici dell’apprendimento classificati come DSA (dislessia, disgrafia ecc) citando un esperto che avrebbe scritto: “Se l’attuale tendenza continua, presto ci sarà poca differenza tra una scuola e una clinica per malattie mentali…”
Riflessioni a margine in merito alla paura della professoressa che la scuola diventi una clinica per malattie mentali.
Le parole pesano e soprattutto quelle che ho letto nella lettera della professoressa che teme che la scuola diventi una clinica per malattie mentali. Le parole evocano bui scenari della storia e fanno star male e lo dico da quella trincea che è la scuola dove, ogni giorno, insegnanti allo sbaraglio devono confrontarsi con innumerevoli difficoltà che ne impediscono interventi didattici efficaci e convivono con la propria consapevole inadeguatezza quando debbano misurarsi con DSA, ADHD, autismi o neurodiversità che inquietano non poco mentre il peso della responsabilità, molto spesso, li insegue anche alla fine delle lezioni perchè nessun insegnante che si rispetti può scientemente ignorare e lasciare nell’invisibilità i propri studenti con bisogni educativi speciali (BES).
C’è poco da fare? C’è molto da fare ma, troppo spesso, non lo sappiamo fare, a volte, non lo vogliamo fare perchè impegnativo, anche emotivamente, parlando e ci si consola pensando che, per fortuna, quelli non sono i nostri figli e ci rifugiamo nel miele della compassione quale potente antidoto e ci arrendiamo di fronte all’ impossibilità di attivare qualunque intervento didattico, perché tanto non serve, il ragazzo non capisce, quale alibi al nostro non saper fare. Il premio Pulitzer Philip Schultz, classe 1945, docente alla New York University e fondatore della prestigiosa scuola di scrittura Writers Studio, della quale è direttore, scopre solo da adulto, all’età di 58 anni ed in modo del tutto fortuito, la propria dislessia e solo perchè riconosce nel proprio figlio che frequenta la seconda elementare, il suo stesso patimento nell’affrontare la scrittura e la lettura.
La relazione del neuropsicologo lo rende immediatamente consapevole che le comuni difficoltà con il suo bambino hanno una causa, così come il ritardo nell’elaborazione delle informazioni, la brutta grafia, la confusione sui nomi delle cose, la frustrazione nei confronti della lettura ed i compiti ad essa connessi. Un premio Pulitzer, dunque, che non sapeva né leggere e né scrivere fino agli undici anni e che solo in età matura comprende che non era la propria stupidità, che da sempre aveva ritenuto fosse l’origine dei suoi problemi ad impedirgli di imparare ed elaborare il linguaggio e che con leggerezza solo oggi può affermare, parlando di sè: “mi piace davvero tutto dei libri, tranne che leggerli”.
La dislessia è una neurodiversità, perchè la mente di uno studente che ne patisce il disagio si attiva in un altro modo per affrontare il processo di insegnamento-apprendimento in cui è coinvolto rispetto ai suoi compagni neurotipici. Egli deve imparare ad adeguarsi e a convivere nel modo più soddisfacente e accettabile rispetto al proprio modo di essere. Strategie didattiche che strutturino percorsi a misura di dislessico sono certamente necessarie ma lo è ancor di più insistere sull’inclusione, valorizzando la stessa difficoltà, facendola percepire allo studente come un arricchimento anche per gli altri compagni della classe, non fossilizzandosi su quello che manca al dislessico ma attribuendo importanza a quello che possiede.
Si tratta di costruire insieme.
A partire dalla difficoltà accertata, costruire assieme una dimensione di amicizia con la propria complessità, insegnare agli studenti che vivano quella dimensione una consapevolezza di sè, l’accettazione della propria problematicità come qualità peculiare. Accettare la propria unicità dislessica, andandone fieri, senza nasconderla, senza vergognarsene affinchè ogni volta, non ci si percepisca, con immensa frustrazione, l’ultimo della classe.
Negli anni passati ho avuto in classe uno studente che si nascondeva dietro una folta frangia colorata di verde che gli copriva gli occhi, che non voleva ascoltare niente al mondo che non passasse dalle grandi cuffie che gli tappavano le orecchie e che ostentava in classe con aria di sfida, nonostante poi si rifugiasse sempre all’ultimo banco. Un giorno discutemmo in modo duro ma questo cambiò il nostro rapporto e nonostante fossimo arrivati alla fine dell’anno scolastico, cominciò a partecipare ad un laboratorio di scrittura creativa che tenevo a scuola e che si occupava, a partire dalla lettura di testi della cosidetta “letteratura della migrazione”, di far familiarizzare i ragazzi con le altre culture. Simone, così si chiamava lo studente, fu bocciato, una delle parole più dure in uso nella scuola, appena edulcorata dal più attuale “non ammesso alla classe successiva”. Si iscrisse ancora nella stessa scuola e tornò ad essere uno dei miei studenti. Solo in seguito, scoprimmo che la segreteria della scuola aveva smarrito, l’anno precedente, la certificazione di dislessia consegnata dalla famiglia al momento dell’iscrizione e nessuno degli insegnanti del consiglio di classe seppe, in quel suo primo e sfortunato anno di scuola superiore, del patimento di Simone e del suo sentirsi perennemente inadeguato.
Il bello di Simone
Valorizzai quello che determinava i suoi comportamenti irregolari, provai a non farlo sentire l’ultimo della classe ma una risorsa per tutti, fino a superare insieme il suo imbarazzo provocato dalla lettura a voce alta che scelse spontaneamente e con coraggio di affrontare, che mise a dura prova la pazienza di tutti, in primis la sua, ma che creò un clima d’aula partecipe ed inclusivo che aveva fatto della lentezza il proprio punto di forza, facendoci tutti adeguare ai tempi di apprendimento di Simone che, nel frattempo, si era liberato dell’ ingombrante frangia verde e delle sovradimensionate cuffie, apparendo per quallo che era veramente, sensibile, creativo e di talento. La mia esperienza con Simone proseguì fino al quarto anno delle superiori ed avendo acquisito consapevolezza di sè, fu tra gli studenti più attivi nel sostenere e promuovere con i suoi lavori grafici i miei progetti sul valore della storia e della memoria e della didattica della Shoah ed uno dei protagonisti del Laboratorio “La memoria nostra amica fragile” che, con gli studenti, avevamo istituito nella Biblioteca Scolastica Multimediale “Alberto Savinio”. Simone era si dislessico ma, fin da subito, mostrò di avere una maturità grafica che lo portò a realizzare fin dal secondo anno del Liceo artistico che frequentava, opere grafiche di grande impatto visivo.
Non posso allora non tornare, anche per associazione mentale, alla sistematica eliminazione dei disabili attuata dal Terzo Reich: l’Aktion T4, il progetto di sterminio che, tra il 1939 ed 1945, ammantato dalla sbandierata scientificità dell’eugenetica soppresse quelle “vite di scarto” che non rientravano nei parametri di perfezione e di produttività teorizzati e perpetrati dalla Germania hitleriana. Perchè il corpo e la mente disabile non potevano in alcun modo rientrare nella prospettiva nazista di costruzione di uno stato superiore che perseguiva il raggiungimento della purezza della razza.
Non sto divagando rispetto al focus di questo mio intervento ovvero allargare la riflessione rispetto a quanto scritto dalla prof. Margherita Pellegrino nella lettera inviata a TEMPI e mi pare che l’allarme da lei lanciato ovvero che la scuola diventi un’emanazione di un ospedale psichiatrico, sia una sorta di inaccettabile offensiva nei confronti della neurodiversità e dei più fragili che hanno fatto il proprio ingresso a scuola ma, colpevolmente, con la loro presenza hanno fatto si che mutasse la didattica.
Come ActionT4?
Mi viene anche in mente quando Silvia Cutrera, studiosa dell’Aktion T4 curatrice di “In Memoriam – Progetto eutanasia, prove generali di uno sterminio”, un’importante mostra allestita presso il Centro Studi della Mente al Santa Maria della Pietà ed autrice del film “Vite indegne”, documentò in un incontro con gli studenti che finanche i testi scolastici di ogni ordine di istruzione avevano riferimenti alle teorie biologiche naziste, corredate da esempi di carattere utilitaristico. In un manuale di matematica in uso negli anni ’40 nelle scuole elementari della Germania, gli studenti erano chiamati alla risoluzione di problemi come il seguente:
“Un pazzo costa allo Stato 4 marchi al giorno, uno storpio 5,50 un criminale 3,50. In molti casi un impiegato statale guadagna solo 3,50 marchi per ogni componente della sua famiglia e un operaio specializzato meno di due. Secondo un calcolo approssimativo risulta che in Germania gli epilettici, i pazzi, etc., ricoverati sono circa 300.000. Calcolare: Quanto costano complessivamente questi individui ad un costo medio di 4 marchi? Quanti prestiti di 1.000 marchi alle coppie di giovani sposi si ricaverebbero all’anno con quella somma?” e questo si che cambiava la didattica.
Per fortuna oggi gli epilettici frequentano la scuola italiana, così i numerosi studenti nella condizione della neurodiversità, tra i quali i DSA o gli ADHD anche per loro che sono un costo per la società occorerebbe ricorrere all’eugenetica e procedere alla riaffermazione di concezioni di matrice biologica della società, magari collegandole come fece l’innominabile Cancelliere del Terzo Reich con la ricerca medica del tempo, il diritto, le applicazioni medico-scientifiche e gli obiettivi politici?
Cerificazioni inutili?
Arrivare ad affermare l’inutilità delle certificazioni neurologiche come scrive la professoressa che, oltretutto, seguono protocolli condivisi dalla comunità scientifica internazionale è davvero inquietante. La soluzione che propone la professoressa è, dunque, fare un passo indietro rispetto ad ogni legislazione sull’inclusione scolastica? O piuttosto far fare un passo indietro ad ogni studente che si trovi nella condizione della neurodiversità a partire dai Disturbi Specifici dell’Apprendimento, vale a dire relegare i neurodiversi a seconda dell’importanza dei disturbi:
1) nelle classi dei cretini (le classi differenziali di cui ho ancora dolorosa memoria visiva)
2) scoraggiare e spingere i genitori ad iscrivere i propri figli problematici nelle scuole speciali (ghetti per quanto riguarda l’inclusione e la socialità)
3) escludere tutti i disabili dalla scuola perché sono un costo sociale, creano conflittualità negli istituti se solo le famiglie si azzardino a difendere i propri diritti, perennemente negati dai perversi dispositivi di assegnazione delle ore di sostegno.
4) ignorare la difficoltà o i disagi nell’apprendimento degli studenti che è certo molto comodo, lava la coscienza, è meno faticoso, e fa si che si viva tutti più serenamente.
Oppure che altro?
Credo che la riflessione debba essere più ampiamente contestualizzata, soprattutto evidenziando le risorse sempre più magre ed insufficienti investite sulla scuola pubblica e che costringono gli insegnanti all’impossibilità di autoformarsi se non a proprie spese e con costi importanti che non sempre è possibile affrontare.
I DSA, gli ADHD, i neurodiversi esistono ma non per questo le numerose certificazioni stanno trasformando la scuola in ospedale psichiatrico o gli studenti in pazienti. Pazienti si, lo devono essere ma con i loro insegnanti che spesso non hanno il giusto approccio epistemologico, che non sono in grado di cambiare sguardo ed attivare altre didattiche ma continuano ad essere ostaggi del tempo tiranno scandito dal programma imposto – peraltro ampiamente superato dalla Pedagogia e dalle nuove strategie didattiche che valorizzano stili apprenditivi personalizzati – e chi non è in grado di seguirlo questo benedetto Programma se ne va in malora, resta indietro, non ce la fa ed è affar suo tanto, l’importante è correre, bruciare le pagine del libro di testo e guai ad attivare altre modalità di apprendimento che prevedano la centralità dello studente responsabile e, in certo qual modo, costruttore del proprio processo di crescita culturale ed educativa entro un percorso guidato dall’insegnante. Pena la protesta degli stessi studenti oramai disabituati ad esercitare ogni pensiero critico.
Più pagine del libro di testo si consumano e prima si mette una tacca ad ogni argomento del programma svolto; più si corre e meglio è altro che elogio della lentezza e chi non può correre, tanto peggio per lui: il programma, prima di tutto, in barba alle difficoltà di apprendimento dei DSA (dislessia, disgrafia, discalculia) e ai disturbi non specifici di apprendimento DSNA, diagnosticabili attraverso test standardizzati di lettura, scrittura e calcolo, difficoltà sottese da specifiche disfunzioni neuropsicologiche, isolate o combinate e che nel DSM IV (già superato dal DSM V) sono inquadrati nell’Asse I quali Disturbi della Lettura, dell’Espressione Scritta e del Calcolo; mentre nell’ICD – 10 (117) sono inseriti all’interno dei disturbi dello Sviluppo Psicologico con il termine di Disturbi Specifici delle Abilità Scolastiche (DS di Lettura, di Compitazione, delle Abilità Aritmetiche e DS misto). Cito dalle Linee guida per i disturbi dell’apprendimento pubblicate dalla Società Italiana Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA).
E proseguiamo con i disturbi non specifici di apprendimento che sono riferibili ad una disabilità ad acquisire nuove conoscenze e competenze non limitata ad uno o più settori specifici delle competenze scolastiche, ma estesa a diversi settori. Mi riferisco al Ritardo Mentale (8) al livello cognitivo borderline, l’ADHD (87), all’Autismo ad alto funzionamento, ai Disturbi d’ansia, ad alcuni quadri Distimici (69) e via dicendo.
E’ vero la scuola non deve essere una clinica…
Ha ragione la professoressa altro che scuola, altro che classi, un vero e proprio reparto psichiatrico dove poter finalmente fare lezione. Si, perchè io, insegnante, nonostante patisca il disagio della mia inadeguatezza rispetto a tali problematiche, provo a mettermi in gioco a reinventare, ogni giorno l’arte della didattica a seconda degli studenti con i quali mi trovo ad interagire, a lavorare autenticamente sull’inclusione, ad attivare una didattica in-situazione e della ricerca-azione ed anche oltre, fintanto non abbia trovato la chiave comunicativa con ognuno degli alunni in difficoltà che soffrono quanto e tanto più di me perchè coinvolti nello stesso processo di insegnamento-apprendimento.
Non ritengo, per questo, di essere una brava insegnante e, soprattutto, non sono l’unica ad attivare didattiche di inclusione. Siamo in tanti, una moltitudine, ai quali è impedito di fare il proprio lavoro perchè della scuola nessuno si cura e ad essa si sottraggono risorse necessarie e vitali ed in tanti patiamo il disagio della nostra consapevole inadeguatezza ma ci siamo e non molliamo e, soprattutto, evitiamo di disperdere preziose energie che preferiamo dedicare ai nostri studenti piutttosto che far nostra una tendenza tanto inquietante quanto pericolosa di ritenere che la scuola sempre più sia psichiatrizzata.
Vorrei infine ricordare il profondo legame da sempre esistito tra l’Arte e la neurodiversità e basti citare Jean Dubuffet ed il suo pensiero sull’artista. Egli ha valorizzato, attraverso l’Art Brut, l’atto espressivo ed esperienziale dell’homme commune, sosttraendo all’artista il potere demiurgico della creazione, scardinando e rompendo il sistema dell’arte, aprendo la strada all’autenticità dell’atto creativo quale cura del sé ed in relazione all’altro da sé e, per inciso, Dubuffet l’arte andava a cercarla proprio dentro gli ospedali psichiatrici; così la Collezione di Hans Prinzhorn, psichiatra dell”ospedale di Heidelberg, testimonia la presenza dell’artisticità e degli artisti anche in luoghi afflittivi come i manicomi.
E’ bene in tal senso chiosare con quanto scritto da Schultz, il dislessico vincitore del Pulitzer che invitano alla riflessione proprio sullo stretto legame tra creatività e neurodiversità:
“La vita di un artista è per molti versi simile a quella di un dislessico. E’ nella natura di entrambi rendere il creatore una vittima, facendone un escluso e un disadattato. Se non fosse per la mia lotta con la dislessia, dubito che sarei mai diventato scrittore o che avrei mai saputo insegnare ad altri a scrivere”.
ANNA MARIA PIEMONTE
Insegnante del Liceo Artistico Statale “Via di Ripetta”