Quando l' autistico diventa maggiorenne non ovunque "scompare"
Marina Viola da Boston continua a raccontarci come funziona la scuola “non inclusiva” ma “efficiente” negli Stati Uniti. In particolare qui affrota un tema per noi molto spinoso: cosa acacde qaundo l’ autistico diventa maggiorenne? In Italia “guarisce” e smette di essere autistico, in America invece…
I servizi a cui una famiglia con un figlio disabile può accedere variano a seconda dell’età del bimbo: dalla nascita fino ai tre anni, la famiglia è seguita da agenzie che si chiamano Early Childhood Intervention: strutture spaziose e colorate piene di giochi e attrezzi terapeutici e di sale per incontri con i genitori.
Spesso all’interno della struttura c’è anche un asilo nido specializzata in diverse forme di disabilità: sindrome di Down, autismo e handicap fisici. Un paio di volte la settimana i terapisti vengono a casa, per lavorare con i bimbi davanti a genitori e insegnare loro alcuni trucchi del mestiere. Ricordo per esempio che Luca imparò a salire le scale (a gattoni) inseguendo un giochino musicale che la terapista metteva sull’ultimo gradino, mentre io stavo dietro di lui ad acchiapparlo in caso cadesse.
Dai tre ai cinque anni, invece, si comincia l’asilo, a volte in strutture pubbliche e a volte specializzato. Dai cinque anni fino ai ventidue, la scuola (pubblica o privata, a seconda dei casi). Dai ventidue anni in poi ci sono dei centri diurni (alcuni ottimi, altri pessimi, molti a metà strada) che rimpiazzano le attività che si facevano a scuola. Gli adulti disabili che vogliono o possono, lavorano; altri fanno attività di ogni genere.
Anche dal punto di vista legale le cose cambiano: quando il figlio diventa maggiorenne, per esempio, diventa responsabilità dello Stato a meno che uno dei due genitori non chieda a un giudice di ottenere la guardianship (cioé la tutela) e avere potere decisionale sulla sorte del figlio. Inoltre, a diciotto anni il governo americano e lo Stato in cui si vive cominciano a pagare uno stipendio mensile al neo maggiorenne per la sua sussistenza. La cifra cambia da caso a caso. Luca, che vive in una famiglia composta da cinque persone, ha diritto di essere pagato abbastanza per coprire un quinto delle spese famigliari: un quinto del mutuo della casa, delle bollette varie, del cibo e dei vesititi per un equivalente di circa 900 dollari al mese. Inoltre ha il diritto a ottenere un’assicurazione medica gratuita, che nel nostro Stato si chiama Mass Heath.
Ma queste sono cose che tutte le famiglie sanno, o che dovrebbero sapere.
Da poco, però, ho scoperto un altro servizio che si può ottenere, questa volta per me: una persona disabile grave maggiorenne, come un anziano anche non disabile, necessita di una caregiver, che viene stipendiata circa cinquanta dollari al giorno dallo Stato in cui vive. Se la persona disabile grave vive a casa con i genitori, uno dei due (in questo caso, io) diventa la suddetta caregiver stipendiata.
Ecco, credo che questo sia un atto di profonda civiltà: riconoscere che il mio occuparmi di Luca e cioé lavarlo, vestirlo, portarlo in bagno, ma anche lottare perché i suoi servizi siano sempre i migliori e che i suoi diritti non vengano mai calpestati, è un lavoro a tempo pieno e che per questo debba essere retribuito è, a parer mio, sacrosanto. In un certo senso stipendiare il lavoro che faccio ormai da quasi diciannove anni significa riconoscerlo, dargli la dignità dovuta.
L’altro giorno è venuta l’assistente sociale per spiegarmi come compilare i moduli necessari per ottenere questo servizio: ha fatto un’ispezione alla casa per assicurarsi che non ci siano pericoli per Luca; mi ha fatto mille domande sulla sua salute e sulla mia, sul suo livello di autonomia e molto altro e mi ha spiegato come compilare la tabella giornaliera del lavoro che svolgo per Luca. Mi ha detto che verrà una volta al mese a casa per assicurarsi che tutto vada bene, per darmi consigli su come meglio affrontare periodi più difficili, come per esempio le vacanze, o un’influenza di Luca, o una mia probabile stanchezza.
Mi ha annunciato, tra le altre cose, che ho due settimane all’anno pagate. le ho chiesto cosa secondo leo dovrebbe fare Luca quando io sono in vacanza (ma quando mai, tra l’altro), e lei mi ha consigliato di mollarlo con Dan e di andare a coricarmi in una spiaggia con un libro e un cocktail.
Quest’anno, crollasse il mondo, ci vado.
MARINA VIOLA
http://pensierieparola.blogspo
Le precedenti corrispondenze di Marina Viola da Boston
- Autismo in America, tra scuola pubblica e scuola speciale
- Anche nella scuola perfetta non è previsto che l’ autistico sia felice da autistico
- Perché noi autistici dobbiamo essere uguali gli altri?
- Da Boston la storia di Emma&Sofia e il loro fratellone autistico Luca
- Insegnanti specializzati in autismo alla scuola di Cambridge
- La vera cura per l’autismo
- Marina Viola da Boston ci racconta Luca
- Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.
A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.