Perché noi autistici dobbiamo essere uguali agli altri?
Fresca da Boston una nuova corrispondenza di Marina Viola. Questa volta la nostra collega comincia a buttare un occhio sull’associazionismo americano. Si noti bene che Autism Speaks è il nostro modello, almeno dal punto di vista di un’ area d’informazione web che tratti di autismo. E’ chiaro che dietro loro hanno un fortissimo sostegno economico da parte di famiglie fortunatamente facoltose e con ragazzi autistici, che sono state particolarmente attente nell’investire nella ricerca e nella comunicazione del loro disagio. Noi ci arrangiamo da soli per ora, ma alla fine qualcosa ci inventeremo!
Mia figlia Sofia frequenta il terzo anno di liceo e quest’anno ha deciso di studiare ASL (American Sign Language) come seconda lingua, visto che è la prima volta che viene considerata una lingua straniera nel mondo accademico.
Il suo professore, sordomuto dalla nascita, non solo insegna loro come comunicare con le persone non udenti, ma parla molto della cultura che si è formata attorno a questo tipo di dis-abilità. L’altro giorno ha espresso il suo disappunto ai suoi studenti nei confronti della cultura dilagante che supporta l’uso diffuso di apparecchi per ‘correggere’ la sordità. È particolarmente contrario quando sono offerti a famiglie di bambini piccoli, perché nega loro la possibilità di scegliere e di accettasi per quello che sono, senza pensare che essere non udenti non significa essere anormali.
Ho ascoltato con attenzione quello che Sofia, con l’entusiasmo tipico della sua età, mi ha raccontato, e il mio primo istinto è stato quello di pensare che anch’io, se avessi un figlio non udente, farei di tutto per ‘omologarlo’. Ma poi mi sono accorta che è lo stesso discorso che porto avanti da anni e che ho voluto spiegare nel mio libro a proposito dell’autismo: perché dobbiamo essere tutti uguali per essere accettati? Perché non esiste, nella nostra società, margine per una diversità, e perché abbiamo sempre la tentazione di correggere chi non è come noi? Perché invece non cercare di accettare, proprio come facciamo con altre culture, anche la cultura della neurodiversità? Le associazioni che si occupano di autismo negli Stati Uniti sono divisi proprio su questo aspetto: curare o creare una società che sia in grado di dare il supporto necessario perché tutti possano raggiungere il successo che vogliono?
Autism Speaks è l’associazione più grande, che offre servizi, sostegno, informazioni e molto altro. È utile per tantissimi genitori, e cerca di educare e supportare il più possibile. Ma questo è il loro obbiettivo: “dedicated to funding research into the causes, prevention, treatments and a cure for autism” (dedicati alla ricerca delle cause, prevenzione, trattamenti e cura per l’autismo, per chi ha studiato francese a scuola), ed è in questa loro missione che si ferma la mia voglia di seguiirli.
Non sono da sola: l’altro grande e sempre più numeroso gruppo che si occupa di autismo in questo Paese è formato per lo più da persone autistiche (ad alto funzionamento, ma non solo) che sembrano essere molto più d’accordo con John Elder Robison, che a quarant’anni è stato finamente diagnosticato autistico e che ha scritto Look me in the eye, un libro autobiografico importantissimo per chi, come me, abbraccia e non rinnega la diversità
Ecco cosa cosa lui pensa di Autism Speaks:
“Nel novembre del 2013, la fondatrice di Autism Speaks Suzanne Wright pubblicò un articolo in cui spiegava la sua visione dell’autismo, e cosa si sarebbe potuto fare a proposito di questo “problema”. Quelli che seguono i miei scritti sanno che credo fermamente nella scienza, e nella promessa di nuovi strumenti per correggere alcuni atteggiamenti che l’autismo ci impone di avere. Però, c’è un’enorme diversità nel tono che usa Mrs. Wright e nel mio. Credo che vediamo questa situazione in modo molto diverso. Da persona autistica che sono, è arrivato per me il momento di dare la priorità alla mia vita e ai miei sentimenti. Celebro i doni che l’autismo ci ha dato, e ho discusso a lungo l’emergente consapevolezza che per tutte le persone come me l’autismo -essendo una diversità neurologica- è un insieme di doni e di disabilità. È il fuoco che muove l’umanità e allo stesso tempo è il fuoco che ci può bruciare mentre cerchiamo di farci strada.
Molte persone autistiche sono al corrente di questa dicotomia. Alcuni di noi si sentono “completamente disabili” e altri invece si sentono” completamente dotati” La maggior parte di noi – oserei dire – si sente di essere tutte e due le cose, in periodi diversi, a seconda di quello che stiamo facendo. Detto questo, supporto l’idea di cambiare la società per renderla più facile per le persone che sono diverse. Supporto inoltre l’idea di sviluppare terapie, trattamenti e strumenti per alleviare la sofferenza e la disabilità sia dell’autismo che delle condizioni che lo accompagnano, specialmente per alcuni di noi. So quanto è difficile per una parte di noi nello spettro, ma vedo anche le doti che altri autistici offrono. Sia gli uni che gli altri sono toccati dall’autismo, e questo fa parte di chi siamo noi. Ed è per questo che dobbiamo affrontare delle sfide difficili, per mantenere le nostre doti e per alleviare la sofferenza. È immensamente più difficile che semplicemente combattere una malattia.
Io agisco in maniera diversa perché sono autistico, e credo che sia mio diritto di farlo senza essere preso in giro, senza bullismo o senza discriminazioni. Allo stesso tempo capisco che le persone sono persone e che se mi comporto da stronzo dovrei essere trattato come tale. Capisco di avere la responsabilità di imparare a comportarmi in maniera tale che gli altri mi accettino o mi rifiutino. Se non so fare una cosa, ma voglio farla, creo che sia giusto chiedere aiuto. Allo stesso tempo, riconosco il fatto che la società deve essere presente per darmi gli strumenti necessari per soddisfare la sua parte di responsabilità. Non tutti vogliono aiutare chi ha una disabilità o chi soffre, e supporto il loro diritto di esistere e li accetto per come sono.
Quello che voglio dire è che ci sono molti modi in cui le persone autistiche posso scegliere di vivere la propria vita e sono tutti validi e meritano rispetto. Qualcuno vuole solo poco aiuto, mentre altri devono affrontare ostacoli enormi. Loro, e loro famiglie, sono arrabbiati e frustrati perché quando chiedono aiuto, la reazione della società è debole. Vivendo in una società progressista sono convinto che è nostro compito sviluppare modi per accogliere la diversa gamma dei bisogni della nostra comunità di autistici. […] Ho cercato di aiutare lo staff di Autism Speaks e far capire loro che il loro messaggio è a dir poco distruttivo per noi persone autistiche. Non ci piace sentirci dire che siamo difettosi o ammalati. Non ci piace sentirci dire che siamo parte di un’epidemia. Non siamo un problema per i nostri genitori o per la società, non siamo geni che devono essere eliminati. Siamo persone.
Abbiamo problemi, e abbiamo bisogno d’aiuto. Alcuni di noi hanno bisogno di terapia, altri hanno problemi fisici importanti. Ma abbiamo bisogno di essere accettati e supportati. C’è tanta diversità nella nostra comunità, il ché significa che abbiamo una vasta gamma di bisogni. Purtroppo, la stragrande maggioranza della ricerca scientifica che Autism Speaks ha supportato economicamente non si occupa di questi bisogni, e la percentuale donata alla comunità autistica è troppo poca per fare davvero una differenza. Considerati i milioni di dollari che sono stati raccolti, troppo poco è andato alle persone autistiche. […] L’assenza di persone autistche tra lo staff di Autism speaks è stato deletereo nello sforzo di connettersi con la comunità. Ogni gruppo che spera di essere accettato nel mondo autistico dovrebbe avere come priorità le persone autistiche, senza eccezioni. La priorità non può essere data ai genitori delle persone autistiche, o ai nonni. Deve essere data alle persone autistiche.[…]
Non posso, quindi, che essere d’accordo con lui.
MARINA VIOLA
http://pensierieparola.blogspo
Le precedenti corrispondenze di Marina Viola da Boston
- Da Boston la storia di Emma&Sofia e il loro fratellone autistico Luca
- Insegnanti specializzati in autismo alla scuola di Cambridge
- La vera cura per l’autismo
- Marina Viola da Boston ci racconta Luca
- Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.
A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.