E se Frozen fosse un cartone sull’autismo “al femminile”?
Una principessa “di ghiaccio” perché autistica
Potrebbe essere questa la vera identità di Elsa, protagonista del disneyano Frozen: “gelida” e incapace di comunicare, proprio come tanti ragazzi autistici. Ragazzi, soprattutto, più raramente ragazze: ma questo non significa che l’autismo esista solo “al maschile”. L’ardita interpretazione arriva dal centro di ricerche sull’autismo della Boston University ed è firmata dalla responsabile della struttura, Helen Tager-Flusberg, che pubblica la sua ipotesi sulle pagine di “Spectum”.
“Ho visto il cartone ‘Frozen’ almeno una dozzina di volte – confessa la studiosa – Tra tutti i personaggi, è Elsa che sembra catturare l’immaginazione di ogni bambina. All’inizio – continua la studiosa – non riuscivo a capire come riuscisse a conquistare tanti cuori: dopotutto, sua è sorella Anna l’eroina calda, affascinane e coraggiosa nella storia. Poi, dopo aver visto il film ancora un paio di volte, ho capito cosa renda Elsa così speciale: lei è il modello di bambina con autismo”.
E cosi Helen Tager-Flusberg lancia il sasso e non ritira la mano, argomentando invece la sua lettura del cartone “in chiave autistica”. “Fare una diagnosi di autismo in un’eroina Disney può sembrare audace, ma Elsa manifesta una serie di tratti che ricordano quelle che i medici ed i ricercatori hanno messo in evidenza tra le ragazze con autismo”. Ed è per questo che “Elsa può fornirci qualche indizio su come l’autismo si manifesta nelle bambine”, visto che di autismo si parla soprattutto al maschile, anche per via dell’incidenza maggiore tra bambini e ragazzi.
Ma quali sono queste caratteristiche?
Tanto per cominciare, “Elsa è socialmente meno impegnata e comunicativa di Anna – osserva la studiosa – Anche se non parla molto, poi, canta splendidamente: proprio come diverse ragazze con autismo che ho conosciuto. Dal momento che ferisce accidentalmente la sorella, praticamente smette di giocare e comunicare con lei. E quando i genitori muoiono, non si rende conto di quanto la sorellina abbia bisogno di lei”. Non parla, non comunica, non prova empatia: preferisce cantare e questo le riesce molto bene. Questi sono quindi i primi tratti di affinità tra Elsa e una bambina con autismo. Ma non solo: “al momento della propria incoronazione, Elsa rimane distante dagli ospiti e si rifiuta di ballare con i suoi tanti ammiratori. Come regina e tutrice di Anna, poi, Elsa sperimenta tanta ansia e un tale sovraccarico sensoriale, da portare un inverno rigido nel regno di Arendelle. Ecco quindi che scappa via per creare un castello di ghiaccio sulle lontane scogliere”. Ma le somiglianze tra la “glacialità” di Elsa e l’autismo non finiscono qui: “Indossa i guanti per alleviare la sua ipersensibilità sensoriale , così come alcune persone con autismo mettono addosso alcuni tipi di tessuti meno irritanti loro”. E, ancora, “ha timore per i suoi poteri magici, è riluttante a stare sotto i riflettori e un desiderio di ‘lasciare andare’”.
Frozen, letto in questa chiave, avrebbe quindi una funzione non solo pedagogica nei confronti dei bambini, ma anche informativa verso gli adulti che lo guardano, perché svelerebbe qualcosa su quell’autismo “al femminile” di cui si parla così poco. Di qui la domanda della studiosa: “Sono veramente di meno le ragazze con autismo, rispetto ai ragazzi? O forse le ragazze sono più brave a mascherare i loro sintomi e tendono a copiare determinati comportamenti, per provare ad adattarsi socialmente? E allora forse siamo noi che non siamo bravi ad individuare i sintomi dell’autismo nelle ragazze?”
Ciò che però conta è soprattutto il compito educativo che questa figura disneyana potrebbe assolvere: “Ad Halloween, la Disney ha venduto milioni di costumi Elsa in tutto il mondo: ragazze che volevano essere Elsa, piuttosto che Anna. Mi piace credere che, nel momento in cui indossano l’abito di Elsa, emulano le sue azioni e cantano le sue canzoni, queste ragazze stiano imparando ad ammirare e abbracciare una stella con autismo. Così diventeranno avranno più comprensione e tolleranza verso le differenze”. Adesso non resta che rivedere Frozen, provando a cogliere nella glaciale regina quei sintomi che la Tager-Flusberg ha voluto cogliere.