La "normale" diversità del #Teppautistico
Inizia qui a collaborare per noi autistici Marco Cioffi. E’ il mitologico “tatuato” di cui parlo nei miei libri e da un paio d’ anni l’ ombra costruttiva di mio figlio Tommy. Marco è di pochissime parole con noi neurotipici perchè a forza di occuparsi di autistici ha imparato il valore del silenzio. Sono sue le foto che hanno iniziato la fase gloriosa del #Teppautismo militante.
La normale diversità Un soggetto autistico, a prescindere dalla sua età anagrafica, risulta all’apparenza “normale” poiché non presenta segni/tratti fisici esteriori che possano connotarlo come “diverso”. Questo accade finché il suo comportamento non si manifesta apertamente attraverso le stereotipie e i buffi atteggiamenti che lo portano inevitabilmente – agli occhi di spettatori normotipici – , ad essere identificato come appartenente ad una categoria definita “altra”, quella appunto dei diversi. Ma diversi da chi? Esistono individui autistici attorno a noi in una percentuale di circa 1 ogni 150, senza contare i numeri che rappresentano la diffusione di tutte le altre patologie mentali e fisiche esistenti nel costellato panorama delle “diversità”. Non sarebbe a questo punto sensato riconoscere tutti questi individui come appartenenti ad una complessiva normalità?
Non è forse ingiustamente limitante descrivere e considerare qualcuno esclusivamente per le sue caratteristiche “assenti”, o meglio “non conformi” ad un’ idea prefigurata di appartenenza? Perché discriminare alcuni individui in base a delle caratteristiche particolari e non riconoscerne invece l’appartenenza ad una ben più complessa realtà? Ognuno è uguale solo a sé stesso, quindi in verità nessuno è uguale ad alcuno.
Gli abitanti umani del pianeta terra sono tutti esseri diversi per infinite caratteristiche e simili per altrettante considerazioni possibili.
La realtà è che siamo programmaticamente abituati a non vedere la ricchezza che ogni forma di diversità rappresenta, negandoci automaticamente la possibilità di incontrarla, allontanandoci così dall’esperienza di viverla. “Nulla al mondo è normale. Tutto ciò che esiste è un frammento del grande enigma. Anche tu lo sei: noi siamo l’enigma che nessuno risolve” scriveva a proposito di questa complessità il norvegese Jostein Gaarder in uno dei suoi più bei romanzi destinati ai ragazzi.
Eppure nel quotidiano, in quanti sull’autobus, in metro o in treno evitano il “matto” che parla da solo? Il solo timore di questo tipo di incontro genera nella maggior parte delle persone una sensazione evidente di disagio: reagiscono così erigendo una distanza di sicurezza, negando ogni contatto per non dover poi vivere l’esperienza della “diversa” presenza che hanno di fronte. E questo non è che uno solo degli innumerevoli esempi di eventualità nelle quali preferiamo non riconoscere a priori la nostra connessione con un individuo, se questo non si conforma all’idea prestabilita di normalità che abbiamo in mente.
“Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa?
Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni!” : così raccontava Luigi Pirandello nell’Enrico IV. Qualche anno dopo Franco Basaglia saggiamente spiegava che “la follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione”. Ma noi no, noi continuiamo a negarla: non ci piace, non ci rassicura l’idea di questa variopinta normalità. Ma normalità non è solo tutto ciò che esiste, si ripete e si presenta regolarmente. l nostri pregiudizi, le nostre scelte, le nostre paure strutturano e condizionano la realtà in cui viviamo e la percezione che abbiamo della stessa, compreso il nostro personale concetto di normalità. Insomma, “ogni uomo è fatto in un modo diverso [..] tutti gli uomini sono a loro modo anormali”, come rispondeva Ungaretti in una storica intervista con Pier Paolo Pasolini.
La normalità è infatti – a mio parere – un contenitore socioculturale costruito con diversi stereotipi raffinati nel corso della storia. Una cornice di giudizio realizzata e nel tempo largamente condivisa in base a considerazioni di varia struttura e naturalmente nutrita dall’ideologia dominante: l’antropocentrismo, secondo cui al centro del mondo non è messo soltanto l’ uomo, ma quello bianco, occidentale, maschio e normotipico. Questi presupposti – che distorcono l’ipotetica equilibrata prospettiva relazionale con l’altro da sé – si possono e si devono analizzare, criticare ed infine rimodellare, fino ad un completo rinnovamento. Il riconoscimento delle varie diversità come parte integrante della normalità – intesa come realtà che tutto include senza discriminare – deve portare a riformulare e diffondere un concetto ampio di rispetto fatto di accettazione ed una più larga consapevolezza dell’esistente.
Potremmo quindi provocatoriamente affermare che la diversità in definitiva non esiste, poiché ci troviamo sempre davanti ad una ricca costellazione di normali eccezionalità ripetute.
Ritengo infine – e in questo caso mi rivolgo soprattutto ai genitori – che tendere a nascondere la diversità (intesa come idea di realtà esistente solo per alcuni) non fa che rinforzare d’altra parte l’idea di una presunta altra normalità, non includente e divergente. La società dovrebbe aspirare a diventare una maglia intessuta di originali individualità, unite tra loro da un collagene comunitario finanche eterospecifico, più che da banali e opportunistiche necessità. Concludo dunque con una proposta: dovremmo impegnarci collettivamente in un cambiamento di prospettiva, in una visione che ci riconosca tutti individui destinatari di uguale considerazione, oltre ogni pregiudizio presente, annullando le persistenti distanze socialmente attribuite dalla cultura in cui disordinatamente navighiamo, ancora troppo spesso alla deriva.
MARCO CIOFFI
Tecnico dell’analisi del comportamento (Aba/VB). Fotografo, scrittore, poeta e assistente di Tommy