Quando il terrorismo spara e uccide in un centro disabili
Per noi autistici è caduto un ulteriore appiglio, forse solo mentale, a cui potevamo appendere alcune delle nostre più folli utopie. Marina Viola dagli Stati Uniti ci fa riflettere sull’aspetto della strage di San Bernardino che più ci colpisce da vicino: anche i nostri ragazzi, i più indifesi tra gli indifesi, sono stati un bersaglio della violenza che alimenta ogni suo impeto dall’ideologia e dal radicalismo. Proprio i nostri #teppautistici incapaci di pensare il male, come pure qualsiasi cosa che trascenda da quello che vedono, sentono, o temano rischiano come ogni altro di essere vittime di una guerra di religione. (GN)
Per un attimo vorrei allontanarmi dal raccontare del mio quotidiano con Luca per condividere alcune riflessioni fatte dopo gli eventi terroristici a San Bernardino, in California, dove un uomo e una donna hanno attaccato un centro per disabili, uccidendo 14 persone.
Al di là delle mille considerazioni di sgomento che si possono fare sulla facilità con cui in America si entri ormai settimanalmente nelle scuole, negli uffici o nel grandi magazzini armati con Kalashnikov comprati al supermercato per fare stragi, la notizia che spicca in questo ultimo atto violento è stata la scelta del luogo in cui farla.
Capisco, o credo di capire dalle notizie lette sui giornali staunitensi, che la scelta del luogo sia stata dettata dal fatto che l’assassino lavorasse all’Inland Regional Center, e che forse non volesse essere un attacco diretto alle persone disabili e alle famiglie che lo frequentavano. Ma in fondo è un dettaglio: fatto è che è stato colpito proprio quell’istituto che per molti rappresentava un supporto inestimabile, dove la difficoltà di dover gestire un figlio disabile potesse essere alleviata da esperti nel settore, da programmi utili e dalla ricerca di una dignità a volte negata a quel tipo di popolazione.
Noi che la disabilità la mangiamo a colazione, pranzo e cena sappiamo bene come sia difficile trovare un centro in cui i nostri bisogni possano finalmente essere assecondati, e la delicatezza e il timore che abbiamo nel lasciare che i nostri figli vengano accuditi in modo giusto, con l’entusiasmo e la professionalità di cui hanno disperatamente bisogno.
Siamo perfettamente al corrente della fragilità dei nostri figli, dettata soprattutto dalla loro vulnerabilità. Scegliamo con cura e attenzione le persone o i centri che promettono aiuti e supporto, e siamo disposti a fare enormi sacrifici per inserirli nei posti giusti: i chilometri in macchina per portarli, i costi economici, le attese delle lunghe liste e via dicendo. Questi centri diventano, soprattutto per le famiglie con figli disabili adulti che hanno meno servizi, l’unico appiglio per un’utopica vita migliore per i nostri figli.
In questo quadro di speranze, aspettative, programmi terapeutici e di supporto, una strage diventa non soltanto una sparatoria in cui muoiono quattordici persone innocenti, ma una strage in cui muore l’idea di una bolla di sapone in cui si rinchiude un senso di protezione, ottimismo, supporto difficile da raggiungere. Viene bombardato il cammino fatto faticosamente insieme per dare e ricevere. Ricorda che anche in un centro come l’Inland regional Center non si può essere tranquilli, che anche i nostri figli disabili e incapaci di violenza possono diventare bersaglio di barbarie e follia.
Leggo sul Washington Post la testimonianza di una mamma che racconta del supporto ricevuto da sua figlia, nata prematura, cieca e con paralisi cerebrale che con l’aiuto del centro non solo ha imparato a camminare e a parlare, ma che è riuscita a superare con dignità le sue difficoltà e adesso è una vivace ragazzina di 11 anni, perfettamente integrata in una scuola pubblica locale. Come farà la sua mamma adesso a spiegarle cosa è successo?
E come faremo noi tutti a sentirci tranquilli a lasciare i nostri figli, quando ogni luogo, anche quello che reputavamo il più sicuro, può essere teatro di tanto odio?
MARINA VIOLA
http://pensierieparola.blogspo
Le precedenti corrispondenze di Marina Viola da Boston
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- La vera cura per l’autismo
- Marina Viola da Boston ci racconta Luca
- Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.
A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.