La storia del bigliettino alla mamma del #teppautistico scatenato
Una mamma di #teppautistico scatenato in un bar ristorante ha il conforto di uno sconosciuto che le paga il conto mentre lei gestisce una crisi oppositiva, e le lascia un biglietto…Ha tutto l’ aspetto di una leggenda urbana, o sicuramente forse è accaduto veramente e il fatto che circoli con insistenza sui social alla fine è per noi autistici un anticipo di primavera…Come ci racconta Marina Viola da Boston. Per chi vive in Italia è comunque immediato pensare che è sempre meglio trovare in un bar chi ci paghi il caffè piuttosto che chi ci cacci a malo modo se chiediamo di usare il bagno…
A fine gennaio si comincia a risentire dei lunghi giorni bui dell’inverno, che sembra non finire mai. È difficile essere raggianti e pieni di energie d’inverno, quando alle quattro è già buio. Si diventa indifferenti, o peggio ancora, tristi. Io poi, che abito nel New England, zona in cui quando ci sono meno otto è considerata una di quelle ‘giornate non troppo fredde’, cado in un baratro buio e profondo: perdo la voglia di fare, mi sembra che una giornata sia uguale a quella appena passata e a quella che verrà. Trascino le mie scarpe stufa, fin dal mattino.
Fortunatamente però l’altro giorno ho ricevuto un messaggio su Facebook di una mia amica che mi ha scaldato il cuore. Non è soltanto un’amica, la mia amica Liz. Ci eravamo conosciute a Brooklyn, dove abitavo con la mia famiglia, durante una delle riunioni dell’asilo di mia figlia Sofia. Venne da me e mi disse che anche sua mamma si chiamava Viola di cognome, e così cominciammo a chiacchierare. Io l’avevo già notata da mesi e mi era piaciuta da subito: capelli neri, occhi verdi enormi, tatuaggi, molti orecchini e un passeggino doppio che spingeva con forza attraverso Prospect Park tutte le mattine per portare i suoi due bimbi, Zac e Henry, all’asilo. Mi era piaciuta da subito, ma un po’ mi intimidiva.
Sua mamma, mi disse quella sera, si chiamava Viola di cognome, come me. Dopo sette minuti di conversazione capimmo di essere parenti: due dei fratelli di mio nonno paterno Mario erano emigrati a New York negli anni Venti, e la mamma di Liz era una delle figlie. Iniziò così un’amicizia che invece di essere amicizia fu davvero un rapporto di famiglia: Zac e Henry avevano acquistato due cugini, Luca e Sofia (Emma, la mia piccolina, non era ancora nata) e divennero anche amici per la pelle. Ancora adesso, malgrado non viviamo più nella stessa città, siamo molto vicine.
Liz, dicevo. L’altro giorno, quando fuori c’erano meno dieci e le strade erano coperte di ghiaccio, sento il ping di un messaggio: è lei, che mi manda un link e mi scrive: “I miss you”. Appoggio la tazza di té bollente e apro.
È la storia di una mamma americana, che racconta cosa le è successo con suo figlio autistico l’altro giorno. Traduco, per chi aveva scelto di fare francese alle superiori:
“Avrei dovuto immaginare che non era una buona idea portarlo a pranzo fuori dopo l’appuntamento dal dentista, ma era così contento di poter mangiare i pancakes che gli avevo promesso che saremmo andati, e ormai non potevo più tirarmi indietro. Si è ricordato di non avere una cosa che aveva lasciato a casa e che voleva, e dopo qualche secondo ha cominciato a fare la tipica scena autistica. Avevamo appena ordinato da mangiare. Dopo che le persone attorno a noi ci fissavano da una decina di minuti, l’ho portato fuori fino a quando non è arrivato da mangiare, così che potesse fare le sue scene senza che la gente ci continuasse a fissare. Fortunatamente si è calmato appena ha visto il mangiare, ma poi ha ripreso ad essere agitato. Quando ho chiesto alla padrona del ristorante, Cyndu Moody il conto, mi ha fatto avere questo. Qualcun altro aveva pagato il conto per noi. C’è del buono nel mondo e sono grata per la bontà degli sconosciuti.”
La padrona le ha fatto avere un bigliettino su cui ha scritto: “Have a great day! You are doing a wonderful job! God Bless. from a mother who knows” (Passa una bella giornata! Stai facendo un ottimo lavoro! Che Dio ti benedica, da una mamma che sa).
Questa mamma, questa ristoratrice e mia cugina Liz mi hanno ricordato una cosa importante: la nostra vita non è facile, i nostri figli si prendono il 99,99% delle nostre energie, a volte combattere per i loro diritti e per la loro dignità sembra una battaglia persa in partenza, una formica contro un iceberg. Ma poi un bigliettino o un gesto spontaneo ci fanno ricordare che vale comunque la pena andare avanti, che non tutti i nostri sforzi sono inutili e che anche se spostiamo solo in millimetro di terra, abbiamo fatto un piccolo, impercettibile passo avanti.
E che comunque la primavera è alle porte.
MARINA VIOLA
http://pensierieparola.blogspo
Le precedenti corrispondenze di Marina Viola da Boston
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- Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.
A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.