"Basta, vado a dormire!": il racconto corale sul teppautismo
Il #teppautistico adulto raccontato a tante mani: quelle di chi lo conosce bene. Tra le centinaia d iniziative che spuntano come funghi in Italia e nel mondo per la “Giornata blu” del 2 aprile, questa potrebbe essere una delle più interessante. Perché nasce in rete – un po’ come il nostro webinar – dall’iniziativa di chi non ha tempo né voglia di partecipare a processioni e summit, ma vuole condividere quella rabbia e quella tristezza che si porta dentro chi ha un figlio adulto #teppautistico. Si chiama “Basta, vado a dormire!” ed è appena uscito in libreria, edito da Les Flaneurs e curato da Rita Francese. Rita è una di quelle mamme che tutti i giorni e tutte le notte si occupa di suo figlio. Anni fa è finita in sedia a rotelle e ci è rimasta per tre mesi, dopo quella che diplomaticamente chiama a “colluttazione” con quel bambinone di 1 metro e 85. Ogni notte accorre appena lui urla e si sdraia accanto a lui su un materasso, pronta a sottoporsi all’interrogatorio notturno: se se non indovina le risposte, sono guai.
Queste storie le conosce bene chi ha un #teppautistico grande e grosso in casa. Altrimenti, nessuno può neanche immaginarle. “Per questo le abbiamo raccontante, alcuni rimanendo anonimi, altri firmandosi con nome e cognome. Non ci siamo mai visti in faccia, abbiamo condiviso le nostre storie via social o via posta. L’idea del libro è nata il 2 aprile dello scorso anno: non ci ritrovavamo nelle cose che venivano dette in televisione: non ritrovavamo i nostri problemi veri, quelli di genitori alle prese con figli autistici gravi ormai adulti”.
Per questi ragazzi, c’è il vuoto assoluto: da un punto di vista clinico praticamente l’autismo scompare al compimento della maggiore età. Ma questo, qui, lo abbiamo scritto tante volte. “I nostri figli non possono andare in un posto in cui 10 ragazzi sono affidati a una persona sola, hanno bisogno di un rapporto uno a uno. Di fronte a quest’assenza di servizi e terapie, molti di loro regrediscono. Ma questo non lo dice nessuno, né il 2 aprile né mai”, spiega Rita. “E’ così difficile ricevere attenzione: io una volta in televisione ho praticamente annunciato il suicidio in diretta, ma nessuno si è preoccupato, il giorno successivo ero sola quanto prima. Poi, se qualcuno davvero non ce la fa, arrivano le lacrime di coccodrillo – racconta Rita – La nostra più grande preoccupazione è il dopo di noi: solo chi conosce i nostri figli e la loro dipendenza da noi può comprendere. Per questo abbiamo deciso di raccontare le nostre storie”.
Quella di Rita è la storia di una mamma che ha conosciuto il nulla offerto ai ragazzi come il suo: “Ho visto cose terribili quando è stato ricoverato per un anno in un centro – ci racconta -: non indossava mai i suoi vestiti, la biancheria era spesso sporca, le lenzuola raccapriccianti. Prendevano 180 euro al giorno ma non potevano farlo uscire perché il personale non bastava: pagavo io, a parte, una persona che lo portasse fuori quando noi non potevamo andare a trovarlo. Le sue crisi di aggressività peggioravano, un giorno tirò un armadio addosso a un ragazzo paraplegico e da allora lo tenevano praticamente chiuso in stanza.
L’epilessia aumentava, sbagliavano le medicine: alla fine ce lo siamo riportato a casa, non potevamo vederlo così. Aveva 15 anni ma era altro un metro e 80 e molto robusto: gli squilibri nei farmaci avevano peggiorato le sue crisi. Dovevamo girare ore e ora in macchina, a 20 chilometri orari, sentendo sempre lo stesso cd: a volte avevo la tentazione di buttarmi da un ponte insieme a lui. Andai a finire sulla sedia a rotelle per tre mesi, dopo una colluttazione con lui. Non ci si rende conto dei rischi che corrono le famiglie come la nostra: è come avere una bomba in casa”, racconta ancora Rita.
Il libro però “non è un piagnisteo collettivo”, tiene a precisare. E’ piuttosto un ritratto ben dettagliato, che fa da sfondo a richieste ben precise: “Chiediamo un sollievo già ‘durante di noi’, ma soprattutto una riposta per il dopo di noi – risponde Rita – Alcuni di noi stanno cercando di organizzare strutture, condividendo un progetto e mettendo a disposizione una casa. Ma è un’impresa molto difficile e scoraggiante. Si pensa anche ai fratelli: io per esempio aspetto di capire che intende fare l’altro mio figlio, forse vorrà occuparsene lui. Ma mi chiedo se sia giusto lasciargli questa croce?”. E’ una delle tante domande che prendono forma tra le righe di questo racconto corale e appassionato. Ma ora “Basta, vado a dormire!”: scrisse su Facebook una di queste mamme, mentre da ore erano alla ricerca di un titolo per il libro. Ed ecco che il titolo era stato trovato…