Pensare Ribelle
Autismo, le chiacchiere stanno a zero
Stavo pensando cosa avrei scritto o fatto per il 2 aprile. Mi sembra di avere la testa vuota anche se da un paio di giorni non sto facendo altro che rispondere al telefono a persone che mi fanno domande sul 2 aprile, rispondo come se sapessi a memoria una poesia che ripeto sempre uguale. Forse è meglio tacere. Ho preso al volo quello che dice invece meglio di me l’ amica Irene, mamma di Tommaso (anche lei), che vedo ogni tanto a spasso con il gigante accanto per i marciapiedi del mio quartiere di vecchi e di uffici.(GN)
Detesto visceralmente le giornate celebrative, le feste di carta pesta soprattutto quando riguardano problemi gravi e reali come la violenza o le malattie. La “giornata della consapevolezza dell’autismo” poi è quella che mi genera scompensi neurologici tali che se possedessi un’arma da fuoco o anche solo una mazza da baseball investirei le mie energie residue per applicarmi nella rimozione fisica definitiva del maggior numero di idioti saputelli che infestano le ore del 2 Aprile da svariati anni a questa parte.
Non cerco giustificazioni e non ne devo dare, sono solo una madre che da 24 anni ha a che fare con un problema senza soluzione che ha stravolto in primis la vita di mio figlio dalla nascita e subito dopo quella del resto della famiglia, di amici, parenti, conoscenti, sconosciuti che ancora oggi quando incontrano una persona autistica per strada la guardano con quel misto di stupore, disgusto, sufficienza, pietà che mi fa pensare che tutti questi anni e tutte queste inutili giornate sono davvero passate invano.
Chi vuole davvero sapere cosa significhi l’autismo non deve leggere libri o seguire trasmissioni ingannevoli e superficiali, spesso paraventi di interessi privati sporchi e vergognosi. E’ sufficiente che passi una giornata a casa di chi come me ha una persona autistica in famiglia, solo in questo modo ci si rende conto di cosa significhi veramente, le chiacchiere stanno a zero.
Iniziamo con il concetto che si tratta di persone autistiche e non di bambini, come troppo spesso viene etichettata questa patologia, quasi fosse una malattia infantile come la varicella o la sesta malattia. Il bambino autistico cresce, signori miei, cresce in altezza e peso, ai maschi cresce la barba e il pisello, alle femmine vengono le mestruazioni e spuntano le tette, con tutto ciò che ne consegue: una vita sessuale negata, impossibile da gestire, soprattutto quando tuo figlio ti fa capire che vorrebbe “scopare”, sì, scopare senza mezzi termini.
La persona autistica può continuare ad avere le stesse stereotipie di quando era un bambino anche se è alto quasi due metri, fare le corsette per strada rischiando di essere scambiato nel migliore dei casi per uno scippatore, in tempi di terrorismo anche peggio. La persona autistica ha bisogno di essere accompagnata, ma non oppressa, svilita nella sua dignità: un ragazzo deve essere trattato da ragazzo, non da bambino scemo, deve essere messo in condizioni di tirare fuori le sue capacità perché le ha e non quelle mirabolanti ai limiti del paranormale del protagonista di Rain Man, film che a torto è stato eletto dalla moltitudine di imbecilli che non sanno nulla, l’emblema cinematografico dell’autismo, ma capacità comuni e normali che se ben gestite portano a grandi risultati e a legittime soddisfazioni per l’interessato.
In questi lunghi 24 anni mi sono trovata, come spesso accade a noi genitori di ragazzi autistici, circondata da persone, parenti prima di tutto, pronte a elargire consigli non richiesti, a dire e sindacare su cosa noi genitori abbiamo fatto o facciamo di sbagliato, fornendo indirizzi di luminari sentiti alla televisioni o di cui si è letto in giro, consigliando la lettura di libri, la visione di film, sentendosi in diritto di tormentarti con tutto il repertorio sull’autismo per il solo fatto che hai un figlio autistico, senza pensare neanche per un attimo che l’argomento ormai ti fa venire da vomitare perché hai già letto tutto il possibile e sai che non c’è via d’uscita, ma mai, dico MAI proponendo di venire a stare col piccolo/medio/grande autistico di famiglia a passare del tempo mentre tu, magari, fai finta per un paio d’ore di avere ancora una vita reale.
Sono tutti professori a casa propria, con il culo ben assestato sulla sedia, tanto il problema è e resterà per sempre tuo. Sei tu che hai adattato la tua vita al ”problema”, perdendo lavoro e relativa pensione e arrangiandoti come puoi dopo che magari anche il matrimonio, già vacillante, si è arenato malamente complicando la gestione del tutto.
Sei tu che improvvisamente ti sei trasformata da persona con un’identità in “mamma di …” e lentamente sei scivolata in una sorta di limbo asettico dove le tue vicende personali assumono contorni sfocati e sempre più lontani.
Dove l’idea di “rifarsi una vita”, frase detestabile, ma ancora molto in voga, provoca un’amara ilarità perché gli uomini che già normalmente tendono a evitare responsabilità e rotture di coglioni, quando capiscono che insieme a te dovrebbero prendere l’intero “pacchetto”, adducendo un repertorio di scuse che va dal pietoso “Non so se sarei all’altezza” alla fuga muta e definitiva, si dileguano e tu ti rendi conto che è meglio così, di casini ne hai già abbastanza e non te ne servono altri.
Sei tu che devi ricordare maniacalmente le scadenze: il modello RED dell’INPS, se non lo presenti ti sospendono la pensione; le analisi da fare a scadenze fisse, gli appuntamenti con i medici per i controlli: ricette, telefonate, trafile, incazzature varie; il rinnovo della tessera dell’autobus, il modello ISEE truffaldino e l’imprevisto sempre in agguato. Sei tu che devi capire come spiegargli che l’asciugamano va appeso al gancio come sempre, anche se il gancio è nuovo e diverso e lui sembra non volerlo riconoscere; sei tu che devi cogliere i segnali dello “scapocciamento” a base di urli, botte in testa (la sua) e tre dita in bocca, con il neurologo che ti chiede possibilmente di filmare la crisi.
Sei tu che ti svegli ogni mattina e vai a dormire ogni sera con il pensiero di cosa può fare ora che ha terminato la scuola e si barcamena tra un paio di mattine in una fattoria sociale, l’atletica nei pomeriggi, l’ippoterapia, riempitivi utili e proficui, tutti rigorosamente a pagamento, che hanno fatto di lui una persona che mette a frutto tante abilità, molte insospettate, ma che non costituiscono un lavoro vero e proprio, un’occupazione che gli cadenzi le giornate dando una vera normalità alla sua vita, almeno a quella lavorativa e sociale.
Sei tu che ti tormenti nel silenzio della notte al pensiero di quando non ci sarai più, a cosa farà, dove andrà a finire, a come si potrà trovare una soluzione che non lo faccia gravare troppo sulle spalle della sorella/fratello normodotata/o che ha già sofferto abbastanza di suo per questa situazione. E la domanda diventa pressante, ossessiva quando un giorno ti rendi conto che gran parte della tua vita è andata, che non hai ancora tanto tempo davanti per pianificare, cercare, trovare una soluzione in un Paese che ti eroga una pensione mortificante e, se sei fortunato, una manciata di ore di assistenza domiciliare, un Paese che ha sfornato una legge sull’autismo senza budget e dove ancora una volta si parla di “bambini autistici”, un Paese ridicolo e grottesco dove un disabile senza una famiglia è morto socialmente e umanamente.
Un Paese dove il 2 aprile accenderanno luci blu, come le mestruazioni finte dell’improbabile pubblicità degli assorbenti, racconteranno in tv quattro storielle edificanti e “a lieto fine”, non si capisce bene quale, il tutto condito da uno spot che ancora cerca di veicolare messaggi desueti e fasulli.
Un Paese dove noi genitori di figli speciali siamo sulle barricate che tutti voi altri lì fuori, con la vostra indifferenza e superficialità, avete contribuito a farci ergere.
Non fraintendete le mie parole e non pensate, come so che molti faranno, che sono solo una povera madre stanca ed esaurita che si sfoga. Sono ancora lucidissima, per fortuna, sono abituata a combattere e non solo per mio figlio, chi mi conosce lo sa.
Sono solo stufa e arcistufa di sentire cazzate, parole vuote dette da personaggi improbabili e improponibili che non hanno la minima idea di cosa voglia dire convivere con l’idea che tuo figlio non sarà mai felice, perché il fine ultimo della vita di tutti è questo, è il raggiungimento della felicità che non è facile per nessuno, per alcuni è impossibile, dalla nascita.
Non c’è vittimismo nelle mie parole, né per me né per mio figlio, c’è consapevolezza, la mia sì, lo è perché parlo con cognizione di causa. E questa consapevolezza mi porta a dire di piantarla con le celebrazioni da quattro soldi, con i finti provvedimenti di facciata, con le parole vuote e fastidiose: i nostri figli hanno bisogno di fatti, di azioni concrete, di qualcosa che sia più di una speranza per il loro domani. L’unica strada è la volontà di persone che sanno, conoscono e vogliono con tutte le proprie forze dare voce, quella vera, chiara e cristallina che si faccia sentire ovunque, a chi non ce l’ha.
Irene Gironi Carnevale