E qui chiudiamo con la tenerezza…
Ho appena pubblicato l’ articolo di Marina Viola “quel tenerone di mio figlio che si caga nel letto” e lo considero il suggello poetico di tutta la vicenda del casting dei disabili di cui non vorrei parlare mai più. E’ stato interessante osservare la reazione della rete e dei media tradizionali a una goliardica provocazione che mi ero inventato assieme a Tommy, con mero intento stravaccato e parolacciaro. Ci siamo fermati solo un minuto lungo il viaggio di ritorno del faticoso shooting di “#Tommyegliatrifilm”, che ci ha visti per una settimana in giro per il sud Italia alla ricerca di autistici nascosti.
Sono stati attribuiti metasignificati insospettabili, fatte lodi immeritate, lanciati anatemi e tirate le orecchie. Tutto scivola via e non lascia traccia, chi ha problemi per casa continuerà ad averli, chi immagina fiction penserà nella migliore delle ipotesi che siamo dei poveretti annichiliti dalla loro tragedia, meritiamo tanta compassione…”Ma che “vompicoglioni pervò!”
Chissà invece forse tutto questo è servito a instillare un maggior senso di responsabilità in chi dal Servizio Pubblico ha la possibilità di formare opinioni e stimolare sensibilità. A tutt’ora quando in Rai trattano i temi della disabilità lo fanno troppo spesso in maniera ignorante e grossolana. Lo continuerò a sottolineare come ho fatto in passato per l’orrido spot sull’autismo o le disgraziate ospitate sui vaccinisti e antivaccinisti.
Non punto il dito e mi nascondo, anzi mi prendo la grande responsabilità di espormi a un redde rationem da cui potrei uscire massacrato. Ho criticato senza pietà ben sapendo che mi esporrò a critiche altrettanto impietose quando uscirà il “nostro” docufilm sull’autismo indicibile a cui i prodi della “Zoo Factory” stanno con me Lavorando. Staremo a vedere…Non mi sono mai sottratto al confronto con il pensiero filisteo e non lo farò nemmeno in questo caso. Non trovo maniera migliore per ribadire in maniera inequivocabile la mia posizione sulla vicenda che riportare qui sotto l’ editoriale che ho pubblicato su LA STAMPA del 27 maggio.
Quando una parolaccia diventa una sassata che scuote dal torporeNon vorrei che mi si dicesse, come sta accadendo, che è stato esagerato richiamare l’attenzione sul «casting della tenerezza disabile», soprattutto perché per colpa mia una persona ha perso il lavoro. Non posso caricarmi di colpe che non ho, conosco anche sin troppo bene i meccanismi dello scaricabarile aziendale, paradossalmente mi ha sorpreso ancora di più che tutti si siano profusi in scuse, dalla regista al produttore. Scuse a chi? Ai disabili che non hanno il privilegio di ispirare tenerezza? Non credo che si siano sentiti chiamati in causa, di solito hanno problemi ben più pesanti cui pensare che preoccuparsi delle fiction edificanti di Rai1. Ancora di più mi verrebbe da dire: scuse per cosa? Di avere forse sottovalutato l’effetto che quella comunicazione avrebbe avuto nei social, composti in gran parte da persone che la disabilità la conoscono di persona? Nessuno penso sia così ingenuo dal non immaginare che colei che ha pubblicato il post dello scandalo, e si è beccata ogni anatema, altro non avrà fatto che rispondere a un input ben preciso di chi le avrà commissionato, appunto, la ricerca di disabili che toccassero il cuore all’abbonato in prima fila, ma non troppo brutti da rovinargli la cena, non troppo disperati da farlo riflettere, non troppo realistici da fargli immaginare che potrebbe capitare anche a lui qualcosa di simile in famiglia.
Tenerezza è la parola che lubrifica la fastidiosa intrusione di ogni tragedia altrui nella più intima coscienza del medio utente della vetero televisione. È la classica strategia del cucciolo, una tecnica che non fallisce mai, sia nei vetusti quanto nei nuovi media. Vale per bambini macilenti e affamati stampigliati sulla cassetta delle elemosine, vale per i teneri gattini nel fulgore di Facebook. Nessuno la prenda come un’offesa alle proprie buone intenzioni, è solo perché conosciamo il lato oscuro della forza che ci siamo permessi una risposta goliardica alla «professionale» ricerca d’interpreti strappalacrime di classe «H»(che sta per handicap, i nostri figli sono così classificati, non ce lo siamo inventati noi).Mi credano i confezionatori di belle favole in prima serata, non c’è stato né dolo né premeditazione nel gesto che generò quell’hashtag così «crudo», da cui esplose l’indignazione collettiva.
Noi eravamo in viaggio per documentare un’Italia totalmente invisibile nei vostri zuccherosi prime time fatti di pacchi della cuccagna, simpatici preti di paese, ballerini (a volte) persino con difetto fisico. Tornavamo Tommy e io da una caccia all’ autistico fantasma, che non ci aveva certo messo addosso «tenerezza». Non è colpa nostra, ma era duro da fare male quello che abbiamo filmato in una settimana di «realismo famigliare» tra condomini e montagne. Abbiamo sfiorato maledetta ignoranza, cupa rassegnazione, vuoto pneumatico di solidarietà sociale e latitanza delle istituzioni. È stato così che ci siamo fermati a una piazzola sulla Salerno-Reggio Calabria, e davanti alle telecamere della nostra zoo factory abbiamo voluto comunicare il primo e più spontaneo pensiero che ci suggeriva la pretesa che fossimo pure teneri.
Non immaginavamo signori della tv che quella parolaccia da Youtube potesse arrivare a turbare la quiete delle vostre terrazze, invece è rimbalzata come una sassata di discolo tra le verzure dei vostri giardini pensili, ha squassato il nitore dei vostri pensatoi minimal e feng shui. Ha costretto molti di voi a dover ribadire i sacrosanti principi di rispetto per la diversità, per le categorie deboli, per la dignità ecc. Mai messo in dubbio che quell’esigenza di disabile tenerone sia scaturita in nome della più rigida osservanza al culto del politically correct, ma volevamo che sapeste che «è uno di noi» anche chi a volte si manifesta come brutto, cattivo, sgradevole e tutto sommato infame. Buona fiction a tutti!
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