Pensare Ribelle

Marina e lo stimolatore elettromagnetico

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Marina Viola a Boston si annoiava si è messa a leggere di suggestive cose sulla stimolazione di autistici con onde elettromagnetiche. Quando mi ha detto che voleva scriverne ho pensato: “ecco la stiamo perdendo…” E già mi vedevo Marina alle prese con apparecchiature da film di invasioni aliene. Poi mi sono ricreduto, aveva solo preso in mano un libro che sta andando alla grande negli Stati Uniti e tra poco se ne discuterà animatamente anche tra i nostri cultori del fantautismo. Tanto vale che anticipiamo il tema in attesa di conferme o smentite da chi autorevolmente potrà esporcene le eventuali evidenze scientifiche. (GN)


Transcranial Magnetic Stimulation, o TMS, è una procedura non invasiva e ancora sperimentale che consiste nello stimolare con delle onde elettromagnetiche alcune parti del cervello di soggetti autistici per risvegliare in loro la capacità di leggere l’emotività loro e di chi gli sta attorno. È un po’ come mettere un apparecchio auditivo a chi è sordo, o degli occhiali magici a chi è cieco.

Ce ne parla John Elder Robinson nel suo ultimo libro, “Switched On: A Memoir of Brain Change and Emotional Awakening”  (Spiegel & Grau), fresco fresco di stampa. A dire il vero non l’ho ancora letto, ma ho ascoltato con attenzione una sua intervista rilasciata alla famosissima trasmissione radiofonica “Here and Now”, in cui racconta la sua esperienza.

Spiega, con la sua voce monotono tipica delle persone Asperger, che quando era piccolo i suoi amici lo prendeva sempre in giro e lo chiamavano stupido o malato mentale: “Non si può sapere cosa non puoi vedere se non puoi vedere” risponde criptico, come a dire che siccome non aveva gli strumenti adatti per capire come comportarsi socialmente, era deriso e lasciato in disparte. Continua il racconto dicendo che l’autismo lo ha però aiutato moltissimo a diventare una star, perché grazie alla sua capacità di concentrazione, è riuscito a diventare un famoso ingegnere e a creare la chitarra sputafuoco che ha reso i Kiss la band più famosa degli anni ’70.

Poi il Beth Israel Deaconess Medical Center, famoso ospedale di Boston, gli ha proposto di partecipare a una ricerca sperimentale per far percepire alle persone autistiche non solo le proprie emozioni, ma anche quelle delle persone che gli stanno attorno. Racconta, con la voce ad un tratto meno monotono e anzi vicina al pianto, di cosa ha provato dopo il trattamento: “Ho sempre pensato che la mia disabilità, che non mi permette di leggere le emozioni degli altri, possa essere meno difficile se solo avessi la capacità di captare certe emozioni, come l’amore, la gioia, ma quando mi sono sottoposto al trattamento, ho provato anche ansietà, paura e altre emozioni terrificanti, che non sono in grado di gestire. Sono arrivato a pensare al suicidio, ho distrutto il mio matrimonio, ho avuto una relazione devastante con un’altra donna. Ci ho impegato cinque anni per riprendermi”. Poi l’autore si commuove al microfono, raccontando di come adesso riesca a vedere la sua infanzia in modo più chiaro, anche se in più dolorosamente.

Ho ascoltato questa intervista con molta attenzione, e mi sono subito fiondata su Goggle per capire se questa ennesima ricerca scientifica è promettente, o se, come la maggior parte di quelle proposte finora sulla “cura” dell’autismo, sia semplicemente una ennesima idiozia.

Poi ho pensato a queste due parole: cura e autismo. Ho chiuso il computer quasi subito e me ne sono andata a fare una lunga passeggiata, di quelle in cui si pensa talmente intensamente che ci si perde per le strade della propria città. Ho pensato che non mi interessa di quello che pensa la comunità scientifica su quest’ultima terapia. Che non mi interessa di sapere cosa Robinson ha provato dopo essere stato bombardato da onde elettromagnetiche. Che il nocciolo del discorso è un altro. Ho pensato che sono stufa del fatto che vinca sempre la filosofia del curare, del manipolare così intimamente un sempre più vasto gruppo di persone per farle assomigliare il più possibile a noi.

Perché noi, quelli “normali”, non siamo certo dei buoni modelli. Ho pensato che siamo ancorati all’idea che dovremmo tutti essere uguali, e che la diversità debba essere livellata, minimizzata, camuffata. Il racconto che Robinson fa quando ricorda che i ragazzini suoi compagni di scuola lo chiamavano stupido e mentecatto, e la sua inabilità di essere come loro, e quindi essere escluso, ne è un buon esempio: il problema è la sua disabilità e non l’idiozia dei suoi amici che lo insultano e lo maltrattano. La scienza studia metodi per bombardare il cervello sperando di cambiare lui, e loro invece sembrano andare bene così. Gli amici idioti, quelli ‘normali’, quelli a cui Robinson aspira ad assomilgliare, non li studia nessuno?

Anche io, qualche tempo fa, sono caduta nello stesso tranello, durante una conversazione con mia figlia Sofia, che ha deciso di studiare American Sign Language, il linguaggio dei segni usato dai sordomuti negli Stati Uniti. Le dicevo che secondo me, grazie alla tecnologia che sta avanzando, presto non ci sarà più bisogno di un linguaggio fatto di segni per comunicare, perché i sordomuti riusciranno a sentire, o a parlare. Lei mi ha guardato negli occhi, incredula: “Ma come? Non è giusto curare le persone autistiche per non livellare tutti, ma va bene curare altre disabilità? E la dignità di chi vuole rimanere come è nato, senza essere manipolato dall’ultima moda proposta dalla scienza?”.

Perché accettare, accettare davvero vuol dire che essere disabili è uguale a non esserlo.

MARINA VIOLA


Leggi Pensieri e Parole, il mio blog:
http://pensierieparola.blogspot.com
Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche domande….

Le precedenti corrispondenze di Marina Viola da Boston

  • Questa è la sua storia: dal 1991, da quando cioé ha deciso di vivere con il suo fidanzato Dan. La loro prima casa era nel New Jersey, dove ha preso una minilaurea in grafica pubblicitaria. Ha tre figli: Luca, che ha quasi diciannove anni, ha una forma abbastanza drammatica di autismo e una forma strana di sindrome di Down; Sofia, che ha sedici anni ed è più bella di Liz Taylor, è un genio del computer e prende sempre cinque meno meno in matematica; Emma, che di anni ne ha solo otto, ma che riempie un silos con la sua personalità. Marina Viola odia le uova perché puzzano, ma per un maron glacé venderebbe senza alcun senso di colpa tutti e tre i figli. Ha una laurea in Sociologia presso Brooklyn College, l’università statale della città di New York. Da qualche anno tiene unblog in cui le piace raccontare alcuni momenti della sua vita. Ha scritto settimanalmente sul sito della Smemoranda (smemoranda.it) dell’America vista però in modo sarcastico e ironico.

A giugno del 2013 è uscito il suo primo libro, “Mio Padre è stato anche Beppe Viola”, edito da Feltrinelli. Nel suo secondo, “Storia del Mio Bambino Perfetto” (Rizzoli, 2014) racconta di Luca e dell’autismo.

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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