Crazy for football, un'impresa mondiale da matti
Presentato alla Festa del cinema di Roma, Crazy for football, il docufilm di Volfango De Biasi che racconta le gesta della prima squadra nazionale di calcio a 5, composta da malati psichiatrici, in missione verso i mondiali di categoria, organizzati nel 2015 a Osaka. Prodotto da Skydancers con Rai cinema e la collaborazione del’Istituto Luce, racchiude in 75 minuti il racconto del progetto portato avanti dallo psichiatra Santo Rullo in collaborazione con Enrico Zanchini e Vincenzo Cantatore. Obiettivo: far ripartire la vita di 12 uomini, da malati ad atleti alla conquista di un sogno.
Barba, Bono, Carini, Della Spina, Di Giovanni, Faraoni, Imarhiagbe, Maoddi, Manzini, Medda, Romano, Sabbatini, Tolu. Questa la composizione della nazionale italiana di calcio a 5, in spedizione verso i mondiali per pazienti psichiatrici del 2015 in Giappone. Gli eroi normali dell’impresa raccontata da Crazy for football, il docufilm di Volfango De Biasi accolto con diversi minuti di applausi alla Festa del cinema di Roma.
“La follia non esiste, la follia è il calcio perchè è lo sport più bello.” Così Karim apre la narrazione di un’avventura che lo vede coinvolto insieme ad altri 11 compagni, direttamente da dipartimenti di salute mentale al campo per gli allenamenti. A guidarli Santo Rullo, presidente dell’Associazione italiana di psichiatria sociale, direttore sportivo; Enrico Zanchini, ex giocatore di calcio a cinque, allenatore e Vincenzo Cantatore, campione mondiale di pugilato, preparatore atletico.
Il risultato di un lavoro iniziato oltre dieci anno fa da Rullo insieme ad altri colleghi per portare avanti la lotta di Basaglia: il reinserimento sociale dei pazienti. Il calcio come strumento: “L’incontro sul campo di gioco garantisce un riavvicinamento tra il paziente e il suo quartiere, abbattendo le differenze tra i ‘sani’ e i ‘malati’. E, al contempo, il campo di calcio diventa il luogo in cui il paziente compie il primo passo nel ricominciare a vivere con gli altri. Persone che in qualche modo hanno smesso di rispettare le regole fuori dal campo, riescono però con facilità a seguire ed accettare le regole del calcio, e questo apre spesso la strada a un completo recupero sociale.”
Così si sono formate una trentina di squadre, spesso allenate direttamente dai loro medici e gestite dalle varie Asl. Primo obiettivo raggiunto: la percentuale di ricoveri, soprattutto, si è abbassata drasticamente. Un’esperienza da raccontare e diffondere, tanto che nel 2004 Volfango De Biasi e Francesco Trento realizzarono “Matti per il calcio”, un piccolo documentario autoprodotto poi venduto a televisioni italiane ed europee. Il film come il calcio è diventato lo strumento di un’operazione più vasta che ha portato gli psichiatri di tutto il mondo a utilizzarlo per portare avanti la ricerca sull’importanza dello sport nella riabilitazione psichiatrica.
Dalle 30-40 squadre esistenti dieci anni fa, si è passati oggi a migliaia e migliaia di squadre di pazienti psichiatrici nei cinque continenti, in campionati che molto spesso si chiamano proprio “Matti per il calcio”. Il Giappone all’avanguardia con 600 squadre, quasi tutte finanziate da società sportive di serie A, ha organizzato i mondiali nel 2015. Dove si è qualificata anche la nazionale di cui si narrano le gesta in Crazy for football, opera figlia di Matti per il calcio, che consentirà al pubblico italiano di vedere come ci possa essere per tutti una seconda possibilità.
Senza compassione e buonismi di maniera, “il calcio non è uno sport buonista”, precisa proprio lo psichiatra, spronati da “ogni cozza sul suo scoglio” di un allenatore che non si ferma davanti all’affanno di nessuno dei suoi giocatori, i 12 campioni si rivelano per quello che sono stati e ciò che vogliono diventare.
In campo la follia è solo per il pallone che a volte fa tirare fuori il peggio di sè, ma senza far perdere l’idea di essere una squadra con un scopo unico. Allora anche il contatto fisico è una terapia, come rivela Enrico “perché in famiglia ho avuto esperienze… non dico di risse ma qualcosa di simile” e la fatica vince sugli antidepressivi, precisa Antonio “ho un trascorso di stupefacenti, avevo iniziato per gioco ma mi ha fatto un altro effetto, prendo un antipsicotico che mi dà sonnolenza ma con lo sport mi sono normalizzato.”
Cosa è normale, chi può considerarsi veramente tale, questa la domanda che si percepisce durante la narrazione e alla quale non si trova una risposta, perchè non c’è. Anche se Sandro ci prova: “Sono stato in Polizia dall’82 all’88, ho anche fatto la scorta a Cossiga, poi ho cominciato a soffrire di esaurimento. Sentivo le voci, sdoppiavo la realtà. Forse ho tirato fuori le mie debolezze. Il calcio è stato importante all’ottanta per cento: mi ha aiutato ad avere una disciplina, a mettermi in relazione con gli altri. La follia, come dice Vasco, è tutta un equilibrio. Come Erasmo da Rotterdam: è il sale della vita. I più grandi pensatori sono stati tutti folli, ci sono premi Nobel che erano schizofrenici”. In campo però non ci sono differenti gradi di patologia.
“Non mi interessa se hanno disagi psichiatrici per me sono giocatori “
ripete Zanchini che, quando li vede litigare durante gli allenamenti, li esorta:“se perdiamo , perdiamo tutti, non solo quello che ha fatto la cazzata.“ Non hanno piedi da calciatori, esilarante la scena del ritiro degli scarpini dal negoziante che decide di regalarli: c’è solo un 41 e mezzo perso tra 45 e 46. Eppure i tacchetti si consumano, la squadra si forma ed è pronta partire per il Giappone, paese dei precisi come li definisce Sandro “pe fà un giapponese ce vogliono cento tedeschi”.
Insieme in aereo e in giro per Osaka a fare foto, indossando con orgoglio le tute ufficiali fornite dalla Federazione Italiana gioco calcio. Sempre arrabbiati con Antonio che litiga ma non riesce a farsi allontanare, pronti a sacrificare il proprio ego per il risultato finale, fino all’importante partita con il Perù. Sandro guarda l’allenatore prima di entrare: “ma lascia giocare loro che stanno andando benissimo.”
Al grido di “Branca Branca Branca” compiono l’impresa nell’impresa. Non si rivela però il finale di un film e nemmeno di un documentario che va visto anche se non si ha rapporto con la malattia mentale, per acquisire forza e consapevolezza da chi ci è passato, ancora ci convive, ma ora non ha un etichetta bensì una medaglia da mostrare. Sudata e non regalata.
E l’avventura poi continua, perchè a giugno è stato annunciato che i campionati del mondo di calcio per persone con disturbi mentali, nel 2018, si terranno in Italia con il patrocinio del Coni, della Federcalcio e del ministero della Salute.