I nostri figli autistici, come maiali all'ingrasso per il business del welfare
Gianluca Nicoletti, giornalista e padre di un ragazzo con autismo è stato intervistato dal professor Luigi Croce, neuropsichiatra, in chiusura del convegno di Anffas a Rimini. Un’intervista personale, senza reticenze, a un padre, con le sue preoccupazioni e le sue fatiche. (da Vita del 6/12)
“Dentro la disabilità”: il professor Luigi Croce, neuropsichiatra e presidente del Comitato Scientifico di Anffas, ha intervistato sabato 3 dicembre Gianluca Nicoletti, giornalista e padre di un ragazzo con autismo, in chiusura del convegno internazionale “Disabilità Intellettive e del Neurosviluppo: diritti umani e qualità della vita”. Ecco la trascrizione di un’intervista a ruota libera.
Gianluca, parlaci dei familiari di persone con disabilità. Tu hai l’opportunità di essere “da tante parti” contemporaneamente, sei il giornalista di successo che certe volte butta fiele sulle associazioni e sei anche tu un famigliare: ci dici cosa pensi dei famigliari delle persone con disabilità?
Ci sarebbe qualche differenza da fare, conosco più che altro famigliari di persone con autismo, che sono a tutti gli effetti persone con una disabilità intellettiva ma che appartengono a una “sottospecie” definita, perlomeno questo è ciò che pensano. Immaginano di appartenere a un sottogruppo definito, al cui interno ci sono altri sottogruppi, un’infinità di sottogruppi: ci sono quelli ad alto funzionamento, a basso funzionamento, gli Asperger che non vogliono essere definiti ad alto funzionamento… ho perso il conto, sinceramente. Ci sono quelli che possono guarire, quelli che sono diventati autistici perché hanno fatto i vaccini, quelli che si intossicano con le diete, quelli che fanno le camere iperbariche, quelli che vanno in pellegrinaggio dalla madonna, quelli che i genitori se li tengono incollati addosso tutto il giorno e il giorno dopo cercano di trasformarli in esseri capaci di affrontare il mondo. Ne ho frequentati parecchi, di tutti i tipi. E sinceramente cerco anche di evitarlo, perché se uno si concentra sul figlio è difficile concentrarsi sui parenti degli amici del figlio. Sempre che possano essere chiamati amici e ammesso che il figlio autistico possa frequentare soltanto persone come lui. La conclusione alla fine è che siamo soli e dobbiamo rendercene conto. Rendersene conto con orgoglio, con gioia, con divertimento, con quel senso di avventatezza, se siamo avventati ci salviamo la vita. Ogni persona che ci conosce e ci guarda negli occhi e ci fa un sorriso è una conquista, una benedizione, una botta di culo, perché la nostra condizione è quella che non ci aspettiamo niente da nessuno. Questa è la partenza.
Genitori di figli autistici ne ho frequentati parecchi, di tutti i tipi. E sinceramente cerco anche di evitarlo. La conclusione alla fine è che siamo soli e dobbiamo rendercene conto. Con orgoglio, gioia, divertimento, con quel senso di avventatezza, perché se siamo avventati ci salviamo la vita. Ogni persona che ci conosce e ci guarda negli occhi e ci fa un sorriso è una conquista, una benedizione, una botta di culo, perché la nostra condizione è quella che non ci aspettiamo niente da nessuno.
Siamo soli. L’associazionismo allora che ruolo ha?
Io su questo parlo per me, perché la nostra equazione individuale prevale su tutto. Io non mi sono mai associato a niente nella vita, non ho fatto nemmeno i boyscout perché non volevo mettermi i pantaloni come gli altri. Mi hanno detto di tutto, democristiano, anarchico, terrorista, ma non perché cambiassi giacchetta ma perché già da bambino la sovrascrittura, il fatto di fare ogni giorno reset di tutto ciò che ho detto e pensato e ricominciare daccapo fa parte di me. Io sono uno che fa l’upgrade quotidiano delle proprie convinzioni, idee, pregiudizi: è una maniera salutare per sopravvivere. Questo lo faccio anche di fronte a un sistema che in realtà avrebbe dei punti di riferimento, dei padri fondatori. Mi sento felicemente solo, ma è anche vero che sono entrato tardi nella grande famiglia dei famigliari con figli autistici e quando ho iniziato a occuparmi di mio figlio l’ho fatto in maniera mia, come faccio tutte le cose: o me ne sbatto completamente o lo faccio perinde ac cadaver, come dicono i gesuiti, profondamente.
Questo l’associazionismo me lo rimprovera continuamente, dove eri tu nel 1985, nel 1789 quando noi già dicevamo questo? Dov’ero? Facevo le cose mie, sapevo che avevo un figlio un po’ strano, ma cercavo di arginare. Si andava per tentativi. Mi hanno parlato di analisi comportamentale che Tommy aveva già 18 anni, c’era poco da fare, non per cattiveria ma perché quello era. Me ne sono iniziato a occupare con quella “maniacalità” con cui mi dedico al lavoro, quando Tommy aveva 16 anni e la mamma non ce la faceva più. All’inizio non capivo, la madre che vede il figlio alzare le mani su di lei, lei piangeva, singhiozzava, ne ho prese tante anche io ma non è che mi ferivano l’anima, cercavo di contenerlo, mi sembrava anche bello, epico, un padre che insegna a un figlio a combattere… poi ho cominciato a capire un po’ di cose, a essere meno approssimativo, ho avuto la fortuna di fare subito la scelta giusta. Sarà che a naso i cialtroni li ho sempre fiutati. Così ho cominciato a occuparmene e non trovavo modo migliore che raccontare il mio quotidiano occuparmene. Sono diventato quello che tutte le redazioni chiamano quando non sanno chi chiamare, sono diventato un professionista del racconto dell’autismo. È difficile invece raccontarmi con altri genitori, difficile perché la mia giornata è limitata.
Ci siamo divisi i compiti con mia moglie, lei fa le riunioni con gli altri genitori, io cerco di portare a casa i progetti, cercare i soldi in giro e curare le relazioni a livelli più alti. Il problema della famiglie è che se si concentrano nel microcosmo quotidiano perdono di vista l’aggiornamento, diventano un po’ come il medico condotto di paese a cui sembra di saper tutto, ha sempre curato i pazienti nella stessa maniera e poi invece hanno scoperto gli antibiotici e lui non lo sa. Si perde di vista il mondo che cambia e per noi è importantissimo invece tenere d’occhio il mondo che cambia, bisogna guardare sempre più in là. Poi esiste anche la categoria opposta, i genitori che per vocazione guardano sempre più in là: sono quelli che creano i gruppi su Facebook che sanno tutto su tutto, sulla scienza alternativa, genitori che pagano mille euro un flacone di uova di maiale, ma che è sta roba, non hanno saputo dirmelo, sfiamma il cervello, svelena i veleni dei vaccini, fanno collette per comprare le uova di maiale e danno le gocce ai figli… L’altro che ha fatto 90 camere iperbariche, ma non hai un figlio, hai un astronauta.
Queste cose non avvengono in Nepal, con lo sciamano, avvengono qui. Come è possibile che accada questo? Che ci siano ritorni indietro al medioevo, al tempo delle streghe e delle superstizioni? Farebbero tutto ai loro figli per farli guarire, ma non c’è niente da guarire, sono autistici, è come se io volessi guarire dall’avere due braccia. Tutto questo lo dico adesso, ma dirlo faccia a faccia alle persone ti crea nemici, sei saccente, sembri quello che si crede chissà chi, mi dicono che faccio i soldi sulla testa di mio figlio, mi trovo in una condizione di imbarazzo per cui preferisco esprimermi attraverso un libro che non faccia a faccia.
Ci sono genitori che pagano mille euro un flacone di uova di maiale. Come è possibile che accada questo? Che ci siano ritorni al Medioevo, al tempo delle streghe e delle superstizioni? Farebbero tutto ai loro figli per farli guarire, ma non c’è niente da guarire, sono autistici, è come se io volessi guarire dall’avere due braccia. Tutto questo lo dico adesso, ma dirlo faccia a faccia alle persone ti crea nemici.
Usciamo un po’ dalla tua esperienza, tirar fuori la parte più pubblica. Si sta parlando tantissimo di autismo, forse anche usandolo. Non è che c’è un business?
Dopo i cucciolotti abbandonati hanno capito che anche l’autismo, con quell’aspetto indifeso, tira. Dopo aver assecondato per anni la filosofia del “chiudere dentro”, negli “istituti per fanciulli minorati” che ancora c’è scritto su alcune porte. Se ne parla tanto, sì, mentre un anno fa il mio lavoro era scovare notizie dove c’era un’ingiustizia o una vessazione, anche lessicale, ora devo andare a “filtrare” le storie, perché mi arrivano tantissime segnalazioni di casi da “denunciare”, dove c’è un problema e quelle che sono paranoie dei genitori dinanzi a quella quota di imprevedibile e indecifrabile che accade a tutti.
Qualche giorno fa girava su facebook il video della maestra cattiva che alla recita della scuola strappa il microfono al bambino autistico: guardando con attenzione vedevi che non c’era niente di strano, che il vestito del bambino era come quello dei compagni, colo che lui l’aveva tirato sulla testa e sembrava che avesse una cresta da gallo, lui ha fatto tutta la sua recita e siccome come tanti nostri figli quando inizia parlare non smette più, la maestra a un certo punto ha detto giustamente ciao basta. Stiamo attenti a questo, ci si rivolta contro. È vero che sul linguaggio noi siamo ancora in una zona limitrofa, non abbiamo ancora piena dignità nel rispetto lessicale, qualcosa ho fatto ma vorrei fare qualcosa di ancora più concreto: perché dal viaggio che ho fatto in Italia per il film, devo dire che c’è la conferma di quanto è stato detto qui oggi.
Esiste un non detto estremamente doloroso, spaventoso, concordo con quanto dice Roberto Speziale. Lui dice che un figlio non è una rendita. È così, è questo il problema, i nostri figli diventeranno improvvisamente importanti per qualcuno perché sono la ragione del loro lavoro e del loro stipendio, è come se lo stessero aspettando, come quelli che vengono a vedere il maiale all’ingrasso e già se lo immaginano trasformato in salsicce. Oggi a cavallo, la settimana bianca, poi il mare… nessuno di noi ha fatto una vita come quella che fanno i nostri figli, vivono felicemente, ma ci vorrebbe che noi diventassimo immortali per continuare a farli stare così. Invece i nostri figli c’è chi li guarda come le rappresentazioni delle mucche e dei maiali dal macellaio, il filetto, il controfiletto… questo qui basta rimpinzarlo per bene e fra un tot di anni, pezzo per pezzo, diventa il nostro business. Non sto esagerando. Tutte le volte che dico questa cosa c’è qualcuno che si alza in piedi e dice “Nicoletti venga a vedere i nostri bei centri”. Mettici tuo figlio nel bel centro, faccelo stare una settimana e poi vediamo.
Speziale dice che un figlio non è una rendita. È così, è questo il problema, i nostri figli diventeranno improvvisamente importanti per qualcuno perché sono la ragione del loro lavoro e del loro stipendio, è come se lo stessero aspettando, come quelli che vengono a vedere il maiale all’ingrasso e già se lo immaginano trasformato in salsicce.
È la sfida del dopo di noi e del durante noi. Dentro e fuori è il titolo dell’intervista di oggi. Anche Francescutti ci ha dato uno spunto finale… Che ne facciamo dei servizi? Che significa fare inclusione? Ormai ci stiamo schierando chiaramente, ci sono meravigliose gabbie dorate dove si fanno un sacco di cose ma non si guarda allo sviluppo delle persone. Li chiudiamo tutti i servizi, un po’ alla volta? Come la vedi la funzione pubblica?
Ma stiamo scherzando? La nostra vita è appesa a un filo, dove pensi che vada mio figlio? Mia moglie quanto può reggere da sola? Io forse sono anche un privilegiato, per certi versi, ma i miei problemi sono gli stessi di tutti. In questo giro d’Italia ho incontrato una mamma calabrese, vedova, con un figlio di 45 anni, “i parenti mi hanno rinnegato, che ci faccio con questo ragazzo?”. Lo mettiamo insieme ai vecchi? Un ragazzo abituato a stare in riva al mare? È lo stesso problema che ha un industriale del Trentino, realizzatissimo, con due figlie gemelle autistiche, ha fatto un bellissimo centro ma ha faticato non so quanto, ha trovato i soldi, ma non basta, non sono i soldi il problema, c’è una questione culturale.
Non vorrei che il dopo di noi venga risolto come è stata risolta l’inclusione scolastica: mi dicono che abbiamo la legge più avanzata d’Europa, di cui andiamo fieri, sì, bene, ma ditemi su 10 dove davvero c’è inclusione scolastica. È così. Sapete tutti quanto è difficile trovare un insegnante di sostegno che abbia la minima consapevolezza di cosa sia l’autismo. Che poi devo anche dire che Tommy ha 18 anni, spero che lo boccino, altrimenti da giungo che farà la mattina? Nonostante tutto andare a scuola è una gioia per lui, ci sono altri ragazzi, è sempre meglio che stare da soli, trova ambiente in cui sta bene, m quando finisce? E qual è lo sforzo della scuola perché questo per lui sia un percorso formativo e non solo un bel parcheggio per vivere la socialità? Dovrò inventarmi qualcosa che somigli alla scuola, dove lui possa andare ogni giorno come io vado al lavoro. Forse sarebbe meglio che si dedicasse a questo la scuola, invece di fargli fare le aste mentre gli altri studiano trigonometria: dalla prima media in poi tutto deve essere un avviamento alla scuola-lavoro, alla bottega, perché comincino a pensare di lavorare… È inutile che pensino di fare gli studenti se tanto è finto, meglio che pensino di essere dei ragazzi di bottega. La scuola fatta così come oggi è una vacanza, che poi finisce, nel bene e nel male.
Non vorrei che il dopo di noi venga risolto come è stata risolta l’inclusione scolastica: mi dicono che abbiamo la legge più avanzata d’Europa, di cui andiamo fieri, sì, bene, ma ditemi su 10 dove davvero c’è inclusione scolastica. È un casino veramente, viene da pensare che sarebbero quasi meglio le scuole speciali, è una bestemmia e me ne vergogno, viene la tentazione di pensare che almeno lì se ne occuperebbe qualcuno a cui non devo spiegare io giorno per giorno cosa ha mio figlio.
La famiglia come vede i professionisti, quelli che possono dare una mano? Noi ci siamo accorti ad esempio che le persone che hanno più bisogno di sostegno, i “gravi”, sono quelli che hanno meno sostegno informale. È un po’ come se noi prendessimo i casi “facili”, che vengono fuori bene e quelli che hanno più bisogno li mettessimo ancora nei vecchi posti magari con le lucine colorate sulla porta. Io e la mia famiglia da trent’anni campiamo con i soldi delle persone con disabilità…
Perché dici così? Tu offri un servizio, mica li rubi. Non devi fare il volontario, offri una prestazione professionale qualificata e aggiornata. Non è che non ci sono i soldi per pagare le persone, l’esempio più calzante è il primo giorno di ADI, quando ti arriva qualcuno che non scegli tu eppure si prende un bel pezzo di soldi pubblici. Io sono stato molto fortunato, ho cercato la persona giusta, è un ragazzo bravo, che ha studiato molto, è diventato l’amico adulto di mio figlio, che ha fatto molti passi avanti. Dovrebbe esserci una vera formazione, andrebbe pensata e strutturata meglio. Perché affidarci sempre all’insegnante di sostegno? Perché per i fragili non ci deve essere una professionalità specializzata? Tutti noi veniamo cacciati se non facciamo bene il nostri lavoro…
Un ruolo ulteriore dei media, quale può essere?
Ho finito ora di girare il film per raccontare i ragazzi con autismo e le loro famiglie, chi pensa sono tutte chiacchiere e che ci piangiamo addosso adesso avrà un quadro completo. Intanto si vede che in tutto il Paese c’è il problema, dicono tutti le stesse cose, c’è una costante. C’è un abbandono totale da parte di chi scientificamente dovrebbe occuparsi di questo tema, vuoi per pregiudizio nostro e per poca attenzione. C’è uno scollamento totale con le amministrazioni e la scuola ne esce pessimamente, è la cosa che ne esce peggio. È un casino veramente, con i nostri figli viene da pensare che sarebbero quasi meglio le scuole speciali, è una bestemmia e me ne vergogno, ma viene la tentazione di pensare che almeno lì se ne occuperebbe qualcuno a cui non devo spiegare io giorno per giorno cosa ha mio figlio. Sai cosa ci vorrebbe? Un’ora alla settimana per tutti, in cui imparare a relazionarsi con un essere mano diverso da me. È qualcosa che serve a tutti, per la vita.
L’ intervista di Luigi Croce a Gianluca Nicoletti è stata trascritta e pubblicata su VITA del 6 dicembre 2006