Buco Nero

L’autismo va raccontato senza filtri. Due riflessioni dopo la lettera di Graziella

graziella mozzica
Graziella la madre che ci ha raccontato la sua storia

Una settimana fa in queste pagine abbiamo pubblicato la testimonianza della madre di un giovane uomo autistico che raccontava un episodio doloroso di comportamento etero aggressivo del figlio nei suoi confronti. L’ intervento ha fatto esplodere un acceso dibattito soprattutto su Facebook in cui si vedevano essenzialmente rappresentate due posizioni: da una parte c’era chi ci accusava di ricercare il sensazionalismo pubblicando una testimonianza così cruda senza specificare che l’autismo è fatto anche di altro. Così facendo rischiavamo di rafforzare lo stima verso i ragazzi autistici. D’altro parere era chi ci sosteneva nella scelta di raccontare e basta come sempre abbiamo raccontato tutto, proprio per contrapporsi alle visioni edulcorate o “accomodate” dell’autismo, che è tante cose di sicuro, ma tra cui c’è anche il “comportamento problema” non sempre prevedibile e non sempre arginabile con le sole forze di una madre.

Pubblichiamo due riflessioni di professionisti studiosi della disabilità che, nei giorni seguenti alla polemica sui social, hanno argomentato con strumenti sicuramente competenti l’opportunità di raccontare l’autismo senza filtri. La prima è della sociologa Simona Lancioni, responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI) che ricostruisce puntualmente e analizza tutta la vicenda ed è stata pubblicata nel sito dell’organizzazione www.informareunh.it.

Il secondo parere è apparso nella newsletter  del sito dell’Angsa Emilia Romagna “www.autismo33.it” ed è stato scritto dal professor Carlo Hanau,  una voce storica dell’autismo italiano, già docente di Statistica medica e di Programmazione e organizzazione dei servizi sociali e sanitari Dipartimento di Educazione e Scienze umane presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. 


Esistono aspetti della disabilità che non si possono raccontare?

Una mamma mostra le lesioni riportate in seguito ad una violenta crisi comportamentale di suo figlio autistico. Qualcuno si domanda se sia il caso di raccontare pubblicamente certe cose (o, quanto meno, di farlo in quel modo). Prendendo spunto da questa vicenda, viene da chiedersi se esistano aspetti della disabilità che sarebbe meglio non rendere pubblici.

 

L’intelaiatura di una sedia di legno verde è abbandonata in prossimità di una spiaggia.

L’intelaiatura di una sedia di legno verde è abbandonata in prossimità di una spiaggia.

Lo scorso 7 gennaio il sito «Per noi autistici» (edito dalla Onlus Insettopia, presieduta da Gianluca Nicoletti, noto giornalista, scrittore e padre di Tommy, giovane uomo con autismo) ha ospitato la testimonianza di Graziella Lanzetta, madre di Simone, figlio unico, ventenne e con autismo. Lanzetta racconta che il giorno prima lei, suo marito Marco e Simone sono andati in giro in macchina a fare shopping. Mentre erano fermi al semaforo, Simone ha avuto una violenta crisi comportamentale. Poiché questa crisi si è manifestata all’improvviso, la madre non ha avuto modo di prevenirla o contenerla in qualche modo. Il ragazzo, che viaggiava sul sedile posteriore della macchina, ha afferrato i capelli della madre ed ha iniziato a tirare con tutte le forze. «Ho sentito un dolore terribile come se i capelli mi si stessero staccando dalla pelle – Nicoletti riporta le parole di Lanzetta – è stato un momento atroce. Nel tentativo di sottrarmi alla violenza avevo aperto la porta della macchina e non riuscivo più a chiuderla. Mi sentivo male, mi mancavano le forze. Mio marito mi diceva di chiudere la porta perché doveva ripartire in quanto il semaforo era diventato verde e la gente dietro in fila suonava il clacson. Ero nel panico. Per cercare di rallentare la presa mettevo indietro la testa e con le mani cercavo quelle di mio figlio e urlavo ma lui non mi sentiva.» Poi il padre è riuscito a bloccare e calmare Simone.

Sempre Nicoletti spiega che questo tipo di situazioni in termini tecnici sono chiamate “comportamenti problema etero-aggressivi”, e chiarisce in cosa consistono: «Le crisi sono la conseguenza di uno stato d’ansia incontenibile, tipico dell’autismo. Quando si scatenano possono comportare anche reazioni auto-aggressive come forti e ripetuti colpi in testa, morsi tremendi alle mani, graffi scarnificatori, calci a porte, muri ecc. Lo stesso Simone ha sulle sue mani i segni indelebili delle crisi.» Il problema di questa madre non è l’episodio in sé, ma, lo chiarisce lei stessa, «la paura che ho di mio figlio, di stare con lui perché ormai non so più come fare per contenerlo. Combattere una battaglia così è un’impresa. Manda in giro la mia foto. Voglio che si veda che cosa vuol dire convivere con un figlio autistico.» Ed, infatti, la testimonianza è completata da una sua fotografia che mostra come, in una parte della testa, i capelli siano completamente diradati.

Conclude Nicoletti: «La storia di Graziella e Simone si intreccia con mille altre storie che abbiamo raccontato, denunciato ecc. Continueremo a farlo nella speranza che serva a smuovere le coscienze di tutti, nessuno escluso.»

Il racconto di questa madre è già di suo meritevole di visibilità, ma ciò che mi ha indotto a scrivere è il commento apparso l’8 gennaio sul gruppo Facebook Ricerca e terapia nello Spettro Autistico (e delle sue politiche), a firma di Alberto Fagni. Lo riporto integralmente «Mi spiegate il senso di articoli come l’ultimo di nicoletti? Nemmeno dovrei fargli pubblicità, ma credo che si debba far notare che il solito taglio vittimistico non credo serva a niente, anzi forse può essere dannoso. Capisco che esistano tante situazioni simili, forse non è nemmeno sbagliato denunciarle. Ma bisognerebbe anche far capire che con dei buoni interventi educativi di base comportamentale, molti, forse non tutti, però molti di questi episodi si potrebbero evitare. Che senso ha far credere che gli autistici adulti siano pazzi furiosi e pericolosi per tutti? Vogliamo aumentare lo stigma verso di loro? Vogliamo che gli altri ne abbiamo paura? Che li evitino?  Dopo articoli come questo non davvero si sorprende che i ragazzi autistici non vengano portati in gita o integrati in molte attività sociali? A cosa serve dare in pasto all’opinione pubblica un articolo con questo taglio? Cosa si chiede? Compassione, visibilità una pacca sulle spalle? E poi tutti a casa propria. Davvero vogliamo far credere che non si possa lavorare su certi comportamenti? Massima comprensione verso la mamma in questione. Però ogni comportamento anche di un ragazzo autistico ha una funzione. Nel caso potrebbe non aver retto per il fatto di dover attendere il verde. Ci sono strategie che possono aiutare. Bisognerebbe spingere perché le istituzioni intervenissero in tal senso. Dobbiamo far capire che sono educabili e non viceversa. Altrimenti piangiamo e facciamoli passare per dei mostri, ma poi non lamentiamoci se i nostri figli verranno esclusi dalla società.» Al commento di Fagni è seguita la replica, pubblicata su «Per noi autistici», di Nicoletti e della stessa Lanzetta. Alla loro replica ha nuovamente replicato Fagni sul suo blog, «Autismo-mica-noccioline».

Al di là della specifica vicenda, sulla quale non è mia intenzione entrare nel merito (i link riportati consentono a chiunque voglia di farsi un’idea), mi viene il seguente dubbio: esistono aspetti della disabilità che non è opportuno rendere pubblici? Ci sono cose delle quali sarebbe meglio non parlare?

Chi sostiene che non tutto si possa raccontare pubblicamente parte dal presupposto che, essendo ancora abbastanza diffuso il pregiudizio che la disabilità sia solo fonte di problemi, scegliere di rendere pubblici i problemi (o, almeno, certi problemi) rafforzerebbe tale pregiudizio. Ma è davvero così?

Prendiamo per buono questo ragionamento e traiamone le logiche conseguenze. La prima logica conseguenza consiste nel divulgare una rappresentazione della condizione di disabilità non veritiera. Disegniamo un affresco abbastanza verosimile, ma ci leviamo un po’ di “ombre”, in modo da farlo apparire più luminoso. Supponiamo che gli altri si lascino convincere dalla nostra narrazione edulcorata, come si relazioneranno alle persone con disabilità? Molto probabilmente essi si relazioneranno in modo sbagliato, giacché l’idea di disabilità che abbiamo divulgato non è veritiera. Un’ulteriore logica conseguenza è che nel momento in cui gli altri capiscono che non siamo stati del tutto sinceri, perderemo credibilità. Pensare di contrastare un pregiudizio negativo opponendogli un pregiudizio positivo è sicuramente inefficace per il semplice motivo che da due rappresentazioni deformate della realtà non ne scaturisce una veritiera.

C’è poi un altro aspetto, le situazioni di disabilità sono affrontate in modo quasi esclusivo dalle famiglie. Fare emergere i problemi che questa organizzazione sbilanciata dei servizi porta con sé è l’unico modo per sollecitare una maggiore presenza delle istituzioni e della società. Se ancora oggi la figura del caregiver (la persona che, all’interno della famiglia, presta assistenza continuativa e significativa ad un congiunto con disabilità) non è giuridicamente riconosciuta e tutelata, una delle motivazioni è proprio l’approccio che considera la disabilità un affare privato da gestire in famiglia. Pertanto, quando qualcuno trova il coraggio e la forza di esprimere il disagio pubblicamente andrebbe ascoltato e supportato, non sottoposto a critica. Che la disabilità non comporti solo problemi, e che le persone con disabilità (che quelle con la stessa disabilità) non sono tutte uguali, si può sempre sottolineare, ma inibire l’espressione del disagio è sempre molto pericoloso; infatti, se la disperazione trova sbarrata la via della parola, potrebbe risolversi a cercare quella del gesto, con conseguenze talvolta irreparabili.

Torno dunque al dubbio iniziale: esistono aspetti della disabilità che non è opportuno rendere pubblici? Non credo, chi ha una mente sufficientemente aperta saprà accettare anche “le ombre” senza pensare che nella disabilità ogni cosa sia “ombrosa”, chi ha una mente chiusa farà fatica ad accettare anche una realtà edulcorata, e tenderà comunque a percepirla come difettosa. Si può certamente discutere sui modi della narrazione, e sarebbe importante farlo, senza tuttavia rinunciare alla sincerità.

Simona Lancioni
Responsabile del centro Informare un’h di Peccioli (PI)

Per approfondire

Natalia Poggi, Ecco come mi ha ridotto una crisi di mio figlio autistico, «Per noi autistici», 7 gennaio 2017.

Natalia Poggi, La mamma di Simone: per i nostri figli autistici gravi non c’è futuro, «Per noi autistici», 8 gennaio 2017.

Alberto Fagni, C’è modo e modo di parlare di autismo, «Autismo-mica-noccioline», 9 gennaio 2017.

La denuncia della madre può essere utile a tutti

Lo stigma sociale è un problema per molte malattie psichiatriche, che alternano fasi acute e fasi di ritorno alla normalità. Lo stigma tende a fare vedere l’anormalità anche nei comportamenti normali, e questo aggrava la condizione del malato.

Ma per l’autismo, anche nelle sue forme più lievi, la condizione non può e non deve essere ignorata dall’intorno sociale. Ad esempio l’inclusione nel lavoro di una persona affetta da sindrome di Asperger si può ottenere soltanto preparando i suoi futuri compagni di lavoro a ricevere un compagno che sembra fisicamente come tutti, ma invece è diverso.
In altri Paesi le persone con autismo indossano magliette con scritta ben visibile la loro condizione. In questo modo nessuno si meraviglia se compiono atti strani e nessuno pensa che si tratti di maleducazione o di cattiveria.
Le reazione delle persone normali sono migliori se conoscono i problemi. Si pensi anche all’episodio del giovane di colore che venne arrestato dalla polizia perchè ritenuto tossicomane in crisi di overdose.
E poi l’autismo grave è come la tosse: non si può nascondere.
L’aggressività auto ed etero è abbastanza frequente e purtroppo si dirige spesso contro la madre. Non è facilmente dominabile neppure coi farmaci e non si può aprioristicamente accusare le istituzioni per le inadempienze e le carenze educative, ma occorre vedere caso per caso.
Per questo in Gran Bretagna ci sono operatori specializzati nel contenimento “senza fargli del male e senza farsi del male”, e l’associazione Pane e cioccolata ha invitato a Bologna degli esperti a insegnare “come si può fare” contenimento a coloro  che operano con le persone con autismo.
Avevamo invitato anche le forze dell’ordine di Bologna a fare formazione di questo tipo, ma senza successo, pur avendo l’appoggio del Prefetto di Bologna, mentre a Pordenone questa formazione è stata fatta.
L’esposizione della realtà, nella sua crudezza, potrebbe aiutare a smuovere le coscienze intorpidite, perciò ritengo che la denuncia della madre possa essere utile a tutti.
Carlo Hanau

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

Lascia un commento

Pulsante per tornare all'inizio