Un anno in più alla materna (e poi alle superiori) per gli alunni autistici? C'è chi dice no
Tempo di iscrizioni scolastiche: aperte, per tutti, telematiche, sempre in qualche modo emozionanti. E, per qualcuno più che per altri, cariche anche di tensione, preoccupazione, incombenze. Perché entrare nel “girone” dell’obbligo scolastico, con tutto ciò che questo comporta, spaventa sopratutto chi sa di avere un figlio complicato. E così è diffusa la tendenza a rinviare questo momento, un po’ per regalare a questo figlio “un anno di gioco in più”, un po’ nella speranza che un anno regali a lui qualche capacità in più, necessaria per affrontare le ore seduti al banco, i voti, i libri, i quaderni, la campanella, la pagella. “Trattenere” il #teppautistico alla scuola dell’infanzia è allora una tendenza, o una tentazione, piuttosto diffusa tra le famiglie e anche da alcune direzioni scolastiche e sanitarie.
Una volta entrati nei cicli dell’obbligo, però, è altrettanto penoso uscirne. Le ragioni in questo caso sono diverse e riguardano soprattutto chi ha una disabilità intellettiva. Uscire dalla scuola superiore significa infatti, per la maggior parte di loro, trovare il nulla. Per i più fortunati, ci sarà un centro diurno, per trascorrere qualche ora più o meno stimolante. Per i meno fortunati, non ci sarà proprio niente. E con l’arrivo della maggiore età e l’uscita dal mondo scolastico, sarà come smettere di esistere. Con buona pace dei genitori che, normalmente a questo punto non più giovanissimi, si troveranno ad affrontare quest’altro problemone. Comprensibile è allora il tentativo, a volte maldestro, di chi cerca, in un modo o nell’altro, di far crescere il più possibile il figlio dentro la scuola, tenendolo lì anche quando i suoi compagni hanno ormai 2 o 3 anni di meno.
La questione divide: chi ha ragione? E’ giusto questo “permanere” o non è piuttosto deleterio? Ciascuno ha le proprie motivazioni, insieme alla propria storia. E ogni genitore, non c’è dubbio, persegue sempre il meglio per il proprio figlio. Qui non stiamo dunque a dire cosa sia bene o cosa sia male, non ci proviamo nemmeno. Lasciamo a voi, se lo vorrete, il compito di raccontarci le vostre esperienze e le vostre opinioni. Posiamo dirvi però cosa preveda la legge e quale sia l’indirizzo attuale. Ne abbiamo parlato, ancora una volta, con Salvatore Nocera, avvocato specializzato nei temi dell’inclusione, che lui stesso, in qualità di “minorato della vista” (come tranquillamente si definisce), ha provato sulla propria pelle. Ed ecco cosa ci racconta Nocera, senza nasconderci quale sia la sua opinione, ben precisa, sulla questione. Procediamo in ordine di tempo: quindi dall’inizio alle fine dell’obbligo scolastico
Scuola dell’infanzia, ovvero rinviare l’obbligo
Nella scuola dell’infanzia, il trattenimento è spesso richiesto dalle famiglie, speventate dal passaggio a una scuola formalizzata, in cui si seguono programmi ministeriali e si valuta l’apprendimento. Sento tante famiglie dire, del proprio figlio disabile intellettivo, che non è ancora “maturo”. In alcune Asl si parla della necessità di “un anno maturativo”.
Dal punto di vista normativo, bisogna risalire addirittura a una circolare ministeriale del 1975.
Questa consentiva, su parere degli esperti, di trattenere l’ alunno per almeno un anno. Ma eravamo nel 1975, erano le fasi iniziali dell’inserimento. Di inclusione neanche si parlava. Arrivò, molti anni dopo, la legge 104 del 1992, poi la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009. E quella circolare del ’75 fu decisamente superata.
Ci fu un equivoco, un malinteso, forse, quando nel 2014 il Miur emise un’altra circolare.
Questa stabiliva che gli alunni stranieri adottati si potessero trattenere nella scuola dell’infanzia per acclimatarsi con ambiente scolastico, così come già avveniva con gli studenti disabili. questo richiamo alla vecchia circolare del ’75 dispiacque molto a noi della Fish, che ci opponemmo e riuscimmo a farla rettificare: fu quindi omesso il riferimento a quella normativa che ritenevamo ormai sepolta.
Di fatto, quindi, non esiste oggi una norma che consenta agli alunni disabili di ritardare l’ingresso alla scuola dell’obbligo. E se ne rallegra Nocera, convinto che questo trattenimento non debba esserci, “se non in casi eccezionali”. Perché?
Perché tutti gli alunni disabili, sopratutto intellettivi, andrebbero allora trattenuti, anche più di un anno. E come pensare che raggiungano, in un anno, la maturità intellettiva necessaria a compiere il passaggio? C’è poi un risvolto estremamente negativo: se tratteniamo l’alunno uno o più anni nella materna, poi nella primaria, poi nella secondaria, a un certo punto si ritroverà ad essere molto più grande dei suoi compagni. E se già l’integrazione è difficile tra coetanei, essa diventa quasi impossibile tra non coetanei.
Scuole superiori, ovvero allungare l ‘obbligo
Per quanto riguarda la “permanenza” nella fase finale dell’obbligo scolastico, si è creato un meccanismo molto pericoloso. Spesso le famiglie degli studenti con disabilità intellettiva chiedono il Pei differenziato e lo accettano. Poi però non fanno presentare i figli agli esami, convinti che così sarà bocciato e la ripetenza sarà automatica. E lo credono anche molti dirigenti. Così, il meccanismo funziona e si allunga la permanenza di questi ragazzi a scuola. Io sono però contrario a questo sfruttamento anomalo della normativa dell’inclusione, che di fatto trasforma la scuola in un parcheggio. Peraltro, tecnicamente, far ripetere l’anno ad alunni con Pei differenziato non ha senso, visto che non è richiesto, nel loro caso, il raggiungimento della sufficienza o degli obiettivi dei programmi. Far ripetere uno o più anni a questi studenti significa semplicemente parcheggiarli a scuola.