Nulla è facile quando il teppautistico ha l'influenza…
Per una mamma come me, che ha deciso di cambiare rotta quando tutti quei medici hanno pronunciato parolone tipo AUTISMO, SINDORME DI DOWN, PROBLEMI SERI, che ha deciso di rimanere a casa invece che intraprendere una carriera, è frustrante accettare il fatto che vent’anni dopo non riesca a capire se suo figlio ha una cosa semplice come un’influenza o se ha altro.
Prendi ieri, per esempio. Luca, vent’anni fatti a novembre, si è svegliato e si capiva che non stava bene: non voleva scendere dal letto per far colazione, voleva stare da solo in camera sua, era pallidissimo e sembrava caldo al tatto. Cos’avrà? Raffreddore? Mal di stomaco? Infezione in gola? Otite? Noi glielo chiediamo anche “Dove ti fa male?”, ma la risposta la conosciamo prima ancora di fare la domanda: come sempre lui punta al suo piede sinistro, o alla pancia o al palmo della mano, o a un ginocchio. Gli hanno insegnato di puntare a una parte del corpo quando gli si chede DOVE TI FA MALE?, e lui lo fa, a caso, da bravo studente. Ma non sa dirci cosa c’è che non va: il piede sinistro, il palmo della mano non danno febbre, torpore, stanchezza. Al limite zoppica un po’. Pensiamo per prima cosa di misurargli la febbre. Quando era piccolo, gli infilavamo il termomentro su per il sedere e lo tenevamo fermo per quattro minuti. Adesso è dura: in bocca non se ne parla, sotto l’ascella si fa una fatica bestiale perché dice NO! NO! e non sta fermo un attimo. Niente, ci fidiamo del tatto: è caldo. Cerchiamo di guardargli la gola: “Luca, apri la bocca!” e lui la apre a metà e la richiude subito, annunciando un enfatico ALL DONE. Niente, anche quello non si può capire. Gli palpiamo lo stomaco per vedere se gli fa male, ma soffre il solletico e ride, e poi ripete ALL DONE! GO AWAY!. Le orecchie? Boh. Non lo sapremo mai.
Luca non sa ingoiare pillole: mai stato capace in vita sua, per cui la tachipirina, che qui è solo in pastiglie, è dura dargliela. Cerchiamo di schiacciarla e di dissolverla in un bicchiere d’acqua, ma poi aspetta: e se non la beve tutta, come facciamo a sapere se ha preso la dose giusta? Non vuole mangiare niente per cui non la si può nascondere in una banana o nel budino al cioccolato. Niente medicine, quindi. Non resta che aspettare che qualche sintomo si faccia vivo senza che Luca debba descriverlo.
Finalmente arriva un bel moccio al naso: ha il raffrreddore forte, di quelli che ti stendono. Per cui cerchi di insegnargli a soffiarsi il naso. Dici “Soffia”, e lui soffia dalla bocca e poi dice HAPPY BIRTHDAY. Come si fa a spiegare a un ventenne come si fa a soffiarsi il naso? Non lo so, non ne ho la più pallida idea. Gli pulisco il moccio, metto l’umidificatore in camera sua, che a lui piace molto per via del vapore che esce dal buco in alto: ci gioca con la mano, affascinato. Fortunatamente il vapore non è caldo, altrimenti non potrei mettere neanche quello. Gli rifaccio il letto, lo incoraggio a mettersi sotto le coperte, al caldo, gli offro un bicchiere d’acqua che beve e esco dalla stanza. Torno una mezz’oretta dopo e la faccia è piena di muco. Certo: non è mica capace a pulirsi il naso da solo, anche se gli ho lasciato la scatola piena di fazzolettini di carta sul comodino. Che scema, come avrei potuto pensare che lui… . Gli lavo la faccia con l’angolo di un asciugamano impregnato di l’acqua calda, lui mi lascia fare, assopito dalla probabile febbre e dalla stanchezza. Ha gli occhi lucidi, spenti, ma sorride: “Mommy!”, mi dice toccandomi i capelli.
Riscendo, cerco di fare due cose tranquillamente. Spero solo di trovare qualcosa da fare che mi distragga dalla realtà: ho quasi cinquant’anni e sono ancora a casa, ad accudire un ventenne bambino, che non sa neanche dirmi che non sta bene, che non posso neppure curare. Posso soltanto cercare di indovinare un suo malessere, un disagio. Posso pulirgli il naso, sperare che non pisci o vomiti nel letto, ma non posso dargli nessuna medicina o provargli la febbre, o dirgli, “Vedrai che domani starai meglio!”. Niente. Come quando era un neonato, lo accudisco, lo lavo, lo vesto, lo cambio e spero di aver indovinato giusto, ancora una volta.
Mi ritrovo a pulire la cucina e a gestire l’ansia che mi sale sia per il presente (“Starà bene? E se ha un’infezione delle vie urinarie, per dire? Che ne so io?) ma soprattutto per il futuro: ho dato vent’anni e ne darò altrettanti, finché reggo, ma prima o poi ci sarà il cambio di guardia, qualcuno che adesso sta forse frequentando la quinta elementare o le medie e non ha mai neanche limonato, un giorno si occuperà di mio figlio, e io dovrò convincermi che farà del suo meglio, che gli pulirà il muco dal naso con l’angolo di un asciugamano, che cercherà di capirlo anche se non parla, anche se non sa comunicare, che lo conforterà con una carezza, anche se non è sempre apprezzata. Che gli porterà un bel bicchiere d’acqua e si siederà con lui, sulla sedia a dondolo della stanza, a dirgli di non preoccuparsi, che poi domani starà meglio.
Mi sembra impossibile, oggi come oggi, che questo ragazzino di seconda media cresca con quel tipo di sensibilità che serve a me per sentirmi tranquilla e a Luca per essere accudito. Per cui mentre passo lo straccio per terra piango come una stronza, per un naso pieno e due lineette di febbre. Che poi, mi dico a voce alta, non servono mai a niente, questi momenti di solitudine.
Mai.
Marina Viola
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