Il centro estivo per teppautistici ad Ascoli è un’Isola per cui lottare
Manca più di un mese alla fine della scuola, ma ci sono molte famiglie già in ansia per quello che accadrà dopo l’ultimo fatidico giorno: sono i genitori dei ragazzi autistici. Spaventati dalla reazione dei propri figli alla fine di routine consolidate; consapevoli della mancanza o rarità di luoghi alternativi nei quali portarli; allontanati o rifiutati dai centri estivi; con nonni e parenti prossimi difficilmente disponibili a sostituirli nella gestione quotidiana dei nipoti; iniziano la ricerca di soluzioni per arrivare a settembre. Ad Ascoli Piceno Debora e Fiorella, mamme di due bambini autistici di 10 e 11 anni, insieme alla sezione locale di ANGSA Marche e alla cooperativa PAGEFHA da tre anni si sono inventate “L’isola che c’è”.
All’interno di una scuola della città, concessa in uso dal comune,a luglio,per due settimane, dalle 9 alle 13, hanno allestito un centro estivo per ragazzi autistici. Gli educatori, supervisionati dalla psicologa della cooperativa, Sabina Giannini, coordinano attività e laboratori con coloro che seguono tutto l’anno, con i quali c’è quindi già un rapporto di fiducia. Pittura, ceramica ma anche piscina, passeggiate al centro commerciale o in giro per la città: il programma è vario, per un progetto che il primo anno si è completamente gestito grazie al contributo di una Fondazione privata, in modo tale che nessuna delle famiglie dei dieci ragazzi che hanno partecipato, dovesse pagare. L’estate scorsa si è dovuto chiedere un piccolo obolo per le spese vive e già il numero si è ridotto; per il 2017, al momento, c’è solo l’assegnazione della scuola da parte del comune, ma Fiorella e Debora stanno provando ad elaborare strategie per non vedere già affondare l’isola.
“Vista l’età degli utenti è indispensabile il rapporto 1:1, il costo del personale va quindi alle stelle: per 2 settimane di centro ci aggiriamo sui 10.000 euro – precisa Debora, che aggiunge – ai genitori dovremmo chiedere una cifra spropositata, credo attorno ai 400/500 euro, pari al costo di 24 ore di un educatore. Siamo praticamente tutte famiglie monoreddito: è impossibile proporre queste cifre. Lo scorso anno abbiamo richiesto un piccolo contributo per le spese vive, ma molte famiglie hanno rinunciato.”
Avere la possibilità, seppur per un breve periodo, durante l’estate, di sapere i propri figli nelle cure di chi li conosce bene, coinvolti in iniziative piacevoli e non chiusi in casa, è una boccata di ossigeno, di un valore che può capire forse solo chi vive la quotidianità dell’autismo estivo.
“Karol ha 11 anni, parla, ma spesso ha comportamenti ingestibili e sta sempre con me – racconta Fiorella – sono preoccupata anche per sua sorella di 10, ha più ansie di me per il fratello. Abbiamo il forte bisogno di staccare per un po’, ma se non troviamo una soluzione, temo che anche questo progetto che avevamo messo su con impegno e credendoci, possa finire”
Mentre diversi genitori iniziano a chiamare per informarsi sulla continuità o meno del servizio, si organizzano eventi di sottoscrizione, concerti e raccolte per provare a resistere, ma la soluzione per rendere meno precaria l’Isola che c’è, potrebbe essere un altra.
“Si può ragionare sulla copartecipazione dei comuni attraverso una migliore distribuzione delle ore di educativa domiciliare.” Suggerisce Debora che prova a spiegare la sua proposta. “Considerata una media di 6 ore settimanali di educativa che hanno i nostri ragazzi durante l’anno, se fossero portate almeno a 10 andrebbero a coprire quasi la metà del fabbisogno settimanale presso il centro estivo, e allora sarebbe molto più facile trovare i fondi per coprire le ore rimanenti.Il centro si sviluppa su 6 giorni a settimana per 4 ore, quindi 24, se metà fossero coperte dalle ore di “educativa” pagata dal comune, basterebbero la metà dei soldi, oppure con gli stessi soldi potremmo fare 4 settimane, un sogno!”
Nell’attesa che l’estate del 2017 abbia inizio anche per i teppautistici piceni, ci sono madri e padri che sognano 4 ore di aria al giorno e forse basterebbe a chi amministra, sia strutture pubbliche, sia private, per capire la necessità di un’accoglienza diversa.