Il mio coming out è per dire che autistici si nasce, nulla c’entrano i vaccini o le mamme frigofero
Da oggi è in libreria “Io, figlio di mio figlio”. E’ il mio libro più difficile, l’unico che mi spaventi che sia letto. Non so che effetto farà, di sicuro farà arrabbiare molti, ma a molti altri darà sollievo. Non è stato facile elaborare il concetto di essere autistico, per quanto fossi dentro all’autismo da anni lo scatto di esserci per una circostanza che riguarda la propria persona e non la persona del figlio, mi si creda non è un passaggio lieve. Potevo starmene zitto, potevo evitare di approfondire, potevo continuare a occuparmi di Tommy da padre che già è un bell’impegno. Ho voluto invece mettermi in gioco a un livello più personale, sono andato a vedere le carte e ora, almeno per quello che riguarda la mia vita, tutto mi sembra più chiaro.
Faccio anch’io coming out, confesso che sono autistico. Questo significa che ho un cervello diverso dalla regola, me l’hanno certificato e ne sono pure orgoglioso. Il sospetto appartenere alla popolazione dei “cervelli ribelli” l’ho sempre avuto, ma dovevo convivere venti anni con un figlio autistico perché la mia stranezza arrivasse a avere un nome e una diagnosi.
Sono andato oltre il racconto dei nostri ragazzi autistici fantasma, ho pensato che se loro hanno un cervello bislacco, anche quello di noi genitori qualcosa di non ortodosso lo deve pur avere, inutile fare finta che siano figli delle stelle, o qualcuno ci abbia fatto un maleficio. Non ne potevo più della moderna leggenda nera che grida alla “strage degli innocenti” fatta dai vaccini, del grande complotto degli avvelenatori del sangue dei bambini per farli diventare tutti autistici. Come pure sono stanco di ascoltare i soloni della psicanalisi che continuano a parlare di autismo come esito di padri forclusi, madri frigorifero, ineffettività e inadeguatezza familiare. L’evidenza scientifica ci dice che autistici si nasce e in buona parte sono proprio i padri a trasmettere ai figli i tratti autistici. Mi sono così volontariamente sottoposto a un’analisi del cervello approfondita, facendo test, visite psichiatriche, esami. Posso produrre tutta la documentazione clinica perché sia chiaro a tutti che non è uno scherzo. E’ stato come mettere in un frullatore tutta la mia vita, ma ne sono uscito con una sentenza chiara e inequivocabile: sono veramente molto autistico, per lo meno nella scala che ne determina il livello. E allora? Sono sempre io, anche se ora matto certificato.
Dal Cap.1: L‘orgoglio di una mente diversa
Forzerò un punto di vista personalissimo, che a me è costato molto esprimere con spudoratezza, e che molto di più potrebbe costarmi in futuro, creando le premesse per una coltre di diffidenza che, nella vita sociale e professionale, da domani potrebbe addensarsi su di me. Si dirà che la sofferenza di avere un figlio autistico mi ha compromesso il cervello, si dirà che la mia è possibile demenza senile, si dirà che sono pagato, o manovrato, per minimizzare responsabilità di multinazionali, centri di potere occulti, ecc. È un rischio che alla fine mi spaventa assai poco; non tanto perché la mia priorità era già da prima, e resterebbe comunque anche dopo, quella di un figlio autistico da gestire.
Da Tommy ho imparato a non affannarmi nella ricerca del consenso altrui e ne ho fatta la mia nuova regola di vita, soprattutto ora che so di essere anch’io, in parte, autistico. Ogni parola scritta in questo libro è stata confrontata con la mia nuova consapevolezza di appartenere alla reietta progenie dei cervelli diversi. Consapevolezza che è stata corroborata da un volontario percorso diagnostico, cui mi sono sottoposto per costruire sulla solidità scientifica quella che poteva essere considerata solo una banale impressione.
Ora ho una cospicua certezza che il mio cervello abbia sempre lavorato fuori dalle regole che rendono le persone più facilmente accettabili, almeno per quella parte di umanità che stabilisce i criteri di cosa possa essere inteso come pensiero normale e cosa invece fuori norma. L’immersione totale, e per nulla sgradevole, nella neurodiversità di mio figlio Tommy, nella quale il mio corredo genetico ha evidentemente avuto un suo peso, mi ha acceso il desiderio di non reprimere la mia parte autistica.
Ho cominciato a non avere paura di pensare da autistico, ho iniziato a farlo per convivere più serenamente con la mia alterità, ma anche per meglio aiutare lui a stemperare i suoi comportamenti, per sperare in una vita socialmente meno reietta. Ora Tommy potrà rivendicare lo ius soli, non più un clandestino ma anche figlio di padre autistico, con pieno diritto di cittadinanza a vita, e non di finire rinchiuso quando io sarò morto. Di solito ogni volontaria «uscita allo scoperto» ha potere catartico, attribuisce gratificazione e dignità a chi si espone come testimone di modi d’essere e comportamenti considerati atipici, o ancora peggio contro natura, dalla parte più arcaica dell’umanità.
Rivendicare l’orgoglio di avere una mente «diversa» è inusuale, e non credo possa raccogliere il sostegno morale dell’ala più culturalmente avanzata della società, come può accadere a chi rivela di essere gay. Nemmeno mi risulta che esistano associazioni o gruppi di opinione a sostegno della neurodiversità, come accettazione lucida e cosciente di un proprio stato. La «follia», perché alla fine di questo si tratta, di solito viene tollerata quando si esprime nel campo del pensiero o della produzione artistica, ma è quasi sempre una valutazione che fanno altri, mai il soggetto che ne è portatore. Si può, con trasparenza, dirsi neurodiversi? Si può farlo al di fuori dell’obbligo di dimostrare talenti extra ordinari? È certamente un punto di riflessione «estremo» per chi già viva l’emarginazione sociale per il solo fatto che su di lui volteggia l’ombra costante di strambo certificato.
Sono però convinto che la consapevolezza di essere parte biologica dell’autismo del proprio figlio farebbe vivere il rapporto con il mondo dei neurotipici con maggiore serenità, anche agli altri genitori come me. (…) Ho sempre cercato di sentirmi il più possibile affine a quel mio strambo figliolo. Pensavo che questo desiderio corrispondesse a un mio paterno senso di protezione, avrei voluto anch’io oltrepassare i confini che mi separavano dal suo universo mentale e stargli vicino senza risparmiarmi per fargli sentire che suo padre c’era. Oggi ho una consapevolezza diversa riguardo a quel mio desiderio di «essere a mia volta un diversamente normale patentato», come scrissi nel mio primo libro dedicato a Tommy. Ho sempre pensato che il suo sistema di pensiero non fosse poi per me così abnorme nella sua apparente eccentricità, un’intuizione che non potevo certo approfondire in quella fase di «scoperta» della paternità attiva.
Ero già sin troppo stordito dal dover ammettere di rendermi conto cosa significhi essere padre, concetto che per me era sempre corrisposto unicamente a una convenzione sociale, come quello di famiglia, parte di un logoro retaggio del passato. Essere padre non mi aveva mai particolarmente affascinato, non davo nessun significato particolare al fatto che avessi generato prole, se non aver sguinzagliato spermatozoi in una donna durante il suo periodo fertile. Oggi mi sembra tutto diverso, e vedo nella presenza costante di Tommy un modo per ricordarmi il mio vero punto di vista, mentre fino a ieri mi sforzavo di conoscere il suo. Ed eccomi qui, arrivato a scoprirmi figlio di mio figlio.
IL BOOKTRAILER
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Gianluca Nicoletti
Io, figlio di mio figlio
«Possibile che non l’hai ancora capito? Anche tu sei un autistico!» La frase detta quasi come un’ovvietà da una giovane neuropsichiatra a Gianluca Nicoletti, padre di Tommy – un ragazzone autistico di vent’anni con una capacità espressiva limitata all’universo di un bimbo di tre -, è di quelle che hanno il potere di cambiare una vita. Anche perché confermata ufficialmente dai risultati di test mirati e dalla successiva diagnosi, clinicamente precisa e inequivocabile: sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro dell’autismo associato spesso, come in questo caso, a un alto quoziente intellettivo.
Alla luce di tale sconvolgente consapevolezza, tutto assume contorni diversi e muta bruscamente di segno. Il presente, che, vissuto nell’impegno totalizzante di procurare a Tommy la massima felicità possibile e di immaginare un futuro decente per lui quando sarà solo, si arricchisce ora di nuovi significati, perché la scoperta della comune neurodiversità tra padre e figlio rischiara e rafforza la visceralità di un legame in cui non è più così chiaro chi dei due dà o riceve aiuto.
Il passato, come dimostra la spietata autoanalisi con cui Nicoletti rivisita e reinterpreta in chiave «autistica», senza ipocrisia né falsi pudori, le fasi cruciali della propria esistenza: l’infanzia solitaria, il tormentato rapporto con la famiglia, i successi e i fallimenti professionali, le relazioni sentimentali, la paternità, i tic e le idiosincrasie personali, ritrovando in ognuna il filo rosso di un’incolmabile distanza dai valori e dai comportamenti della maggioranza neurotipica. E soprattutto il futuro, che, tra relazioni mediate da strumenti digitali e abbattimento di strutture affettive tradizionali e rassicuranti, sembra destinato a fare degli autistici ad alto funzionamento l’avanguardia più credibile di un prossimo salto evolutivo rispetto alla socialità.
Io, figlio di mio figlio è un’appassionata e coraggiosa autoriflessione rivolta in particolare, anche se non solo, ai genitori di ragazzi autistici, che Nicoletti ha fatto uscire dall’ombra e dall’isolamento con il docufilm Tommy e gli altri, trasmesso con successo in televisione, e che ora invita a scoprire e a rivendicare con orgoglio la propria neurodiversità: «Noi siamo figli dei nostri figli autistici e insieme vi mostriamo l’esempio di come i “cervelli ribelli” possono essere lo stimolo fantasioso ad aprirsi al nuovo e all’originale in una società imprigionata nella gabbia dei propri pregiudizi».