Gabriella La Rovere ricorda Clara Sereni
Dopo la diagnosi di mia figlia che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo, ho inizialmente cercato tutto quello che al momento si sapeva della sua malattia e soprattutto dell’autismo, per poi buttarmi famelica sui libri di narrativa che affrontavano il problema da un’altra angolazione.
Mi sono subito imbattuta in “Mi riguarda”, raccolta di scritti di personaggi famosi che per la prima volta rompevano il muro di riserbo per raccontare la loro esperienza di genitori o parenti di bambini con gravi disabilità. Rimasi colpita dallo stile e dalle emozioni di Clara Sereni. Mi ritrovavo nel suo stesso senso di impotenza davanti alla malattia mentale, nello sconforto di non poter dare seguito alle mie aspirazioni, nella rabbia di essere incatenata a una situazione soffocante, all’interno della quale e con il favore della notte, avrei poi ritagliato piccoli spazi di libertà mentale. Il destino mi ha portato in Umbria ed ho avuto un altro contatto con lei tramite la Fondazione Città del Sole.
Dieci anni fa il cohousing era un’opportunità rivoluzionaria ed io non ero pronta a un tale cambiamento. Ricordo che rimasi impressionata e anche un po’ impaurita davanti alla psichiatra che mi spiegava in cosa consisteva e anche che era possibile iniziare l’esperienza quasi da subito. Non era ancora il momento né per me, né per mia figlia di dare ulteriore svolta alla nostra vita.
La morte di Clara Sereni ha riportato a galla tutti questi ricordi. La sua scomparsa meritava una maggiore risonanza sui media. Mi fanno rabbia le poche parole spese a fronte di vere e proprie celebrazioni per scrittori meno capaci di lei. Voglio ricordarla parlando del suo libro più bello: “Manicomio primavera”, ormai fuori catalogo, raccolta di racconti che osservano e descrivono la neurodiversità come meglio non si potrebbe.
In Borderline troviamo la descrizione di un bambino particolare che non aveva i capelli radi dei Down, né i gesti contratti degli spastici; ben vestito, curato, senza nessun segno distintivo di abbandono o emarginazione. Normale nel viso e in tutto. È così che trent’anni fa venivano classificati i bambini autistici: borderline, difficili, caratteriali, e già con questo termine si insinuava il sospetto di una incapacità educativa da parte dei genitori. La protagonista del racconto accoglie in casa questo compagno di scuola del figlio, come già aveva fatto in passato con altri disabili. L’esperienza è del tutto nuova proprio perché il bambino è apparentemente normale, nessun segno di difficoltà o stranezza. Qualcosa però emerge quando, chiusa la porta di casa, si delimita uno spazio per la relazione. Compaiono le domande ripetitive che non attendono risposta e si ripetono all’infinito come un mantra “Chi sei?”, “Mi dai da mangiare?” La protagonista affronta uno degli aspetti della neurodiversità con un’ansia che cresce a dismisura quando il figlio utilizza lo stesso sistema comunicativo come fosse un nuovo passatempo. Esplode una rabbia reattiva nel tentativo di interrompere il gioco che rende i due bambini complici e così uguali. È la paura di una contaminazione, della possibilità che un semplice svago possa mettere in evidenza disturbi latenti e farla sprofondare all’inferno. Bellissime le ultime battute del racconto. Quando la madre venne a prenderlo il borderline la tempestò di “mi dai da mangiare?” e non riuscirono a scambiarsi una parola, lei intuì nella stanchezza dell’altra il dolore contenuto e intermittente di chi si è costruito un’abitudine: come con la malaria o la quartana, non si guarisce però ci si convive, ci si organizza.
In Mamma-di-scuola la protagonista è un’insegnante di sostegno alle prese con un bambino che cercava angoli lontani, che parlava ai muri, sempre in movimento perché rifiutava di sedersi. La relazione è resa assai difficile dai calci che il bambino con precisione feroce le tira agli stinchi. Quando sarebbe normale lamentarsi, se non addirittura piangere per il dolore, l’insegnante prova a superare le difficoltà, a minimizzare l’accaduto cercando nuovi canali comunicativi. Il racconto descrive nei minimi particolari i cosiddetti comportamenti-problema e la dinamica che si stabilisce tra la vittima (la maestra) e l’inconsapevole carnefice (il bambino) che è sempre dispiaciuto di quanto capitato. La reazione della mamma-di-scuola è la stessa della mamma-di-casa: nascondere il dolore fisico e psichico per paura che il dispiacere possa scatenare altre risposte violente. È l’errore di sottovalutare chi abbiamo di fronte, come se la diagnosi non possa dare altra possibilità di recupero. È questo essere mamma che ci incatena a uno stereotipo di colei che si prende cura dell’altro a scapito del proprio benessere. Nella relazione con la neurodiversità è invece importante essere veri.
I racconti sono un vero manuale per chi decide di occuparsi di persone autistiche, dal medico all’educatore, e sono uno spaccato dolente per il genitore che si rivede come in uno specchio. Questo libro merita di essere pubblicato nuovamente, studiato nelle università, tenuto sempre a portata di mano per non dimenticare mai l’enorme eredità che Clara Sereni ci ha lasciato.
Gabriella La Rovere