Pensare Ribelle

A noi che capita di accudire un fragile gigante autistico come Lennie Small di “Uomini e topi”

Molti anni fa, all’inizio dell’estate e alla chiusura delle scuole, quando ancora non esisteva la tv a colori, la Rai trasmetteva dei film alla mattina. Credo di essermi fatta una cultura cinematografica a partire da quegli anni; di alcuni ho un ricordo indelebile, associato alla commozione che avevano suscitato, di uno in particolare avevo solo il senso di angoscia e la tristezza, senza ricordare niente della storia. L’altro ieri mi sono imbattuta proprio in questo film, nella versione del 1992, stranamente anno di nascita di mia figlia.

Uomini e topi è un romanzo di John Steinbeck, pubblicato nel 1937, liberamente ispirato alla vita di un paio di personaggi e a un episodio realmente accaduto nel 1920. Durante la Grande Depressione, i braccianti stagionali cercavano lavoro per sopravvivere. Si spostavano da una fattoria ad un’altra portando nient’altro che una coperta arrotolata. Venivano sottopagati, maltrattati, affamati e, peggio ancora, privati di ogni umanità.

La storia racconta dello strano rapporto tra George Milton e Lennie Small (il nome è un ossimoro!). il primo scaltro, minuto; l’altro enorme, dal volto senza forma, con occhi grandi e chiari, e ampie spalle ricurve; camminava pesantemente, quasi strascicando i piedi, al modo in cui un orso trascina le zampe. E anziché dondolargli ai fianchi, le braccia gli pendevano flosce.
Non è una vera amicizia, in quel periodo nero era inconsueto incontrare due uomini che dividessero tutto insieme.

George è forse il primo caregiver della letteratura, con tutte le contraddizioni emotive associate. Farebbe sicuramente a meno di occuparsi di Lennie, incapace di badare a se stesso e di controllare la sua forza. Ogni azione è esagerata e sgraziata. Beveva a lunghe sorsate, sbruffando nell’acqua come un cavallo. Ha bisogno di continue conferme, di sapere che va tutto bene. Fa ripetere a George la stessa storia, di un loro futuro assieme in una fattoria con un paio di acri di terreno, un orto, una mucca, qualche maiale e la gabbia dei conigli. Lennie ha una vera ossessione per questi animali. Mi piace accarezzare le cose belle con le dita, cose morbide.

In mancanza di un coniglio, tiene un topolino nella tasca in modo da lisciarlo con il pollice. È un comportamento compulsivo, così vicino alla stereotipia delle persone con disturbi dello spettro autistico ed è possibile che lo sia perché l’autismo adulto, ora come allora, spesso viene confuso con la schizofrenia e la psicosi grave. I topolini nelle mani di Lennie hanno vita breve, basta un morso e le dita ne stringono reattivamente la testa fino ad ucciderli. La paura lo manda nel panico facendogli commettere azioni non intenzionali di difesa.

Già dalle prime sequenze del film e anche nel libro incombe la tragedia, si capisce che qualcosa di tremendo capiterà e forse questo presagio, mantenuto per tutta la storia fino all’inevitabile epilogo, ha colpito profondamente la mia sensibilità di bambina facendomi scordare la trama. A distanza di anni e con tutto il mio bagaglio di esperienze, anche dolorose, ho guardato il lungometraggio con occhi diversi, riconoscendomi nella rabbia del caregiver George. Se non ti avevo attaccato alle costole era tutto più facile e più bello

Uomini e topi è una storia di fragilità e solitudine. Quella dell’idiota Lennie, di Crooks, lo stalliere negro, storpiato dal calcio di un cavallo, che dorme in una baracca, lontano da tutti gli altri in una solitudine disperata; quella di Candy, l’addetto alle pulizie, tenuto a distanza perché vecchio e senza una mano; quella della “moglie di Curley” che nella storia non ha neanche la dignità di un nome e quindi un’identità separata dall’uomo-padrone.

Quando la tragedia si è ormai consumata, Lennie si rifugia spaventato nella boscaglia vicino al fiume e qui, in preda alla paura e senza niente da accarezzare, ha delle allucinazioni e parla alternando la paura alla rabbia, alla disperazione. La sua uccisione compassionevole ad opera del caregiver George è stata l’immagine che ha operato la rimozione nella mia mente di bambina. Mi sembrava un’atrocità difficile da comprendere nei riguardi di un indifeso.

Tutto è però racchiuso in una frase: Supponi che lo richiudano e sbattano legato in una gabbia: non sarebbe una cosa tanto bella, George. Deve essere lo stesso pensiero che in questi anni ha armato la mano di tanti genitori anziani con figlio disabile.

Gabriella La Rovere

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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