Dove vanno a finire gli autistici adulti?
Negli ultimi anni la ricerca sull’autismo ha permesso di fare luce su una situazione che veniva semplicisticamente attribuita al comportamento distaccato della madre. Allo stato attuale è possibile fare diagnosi di autismo molto precocemente consentendo così di poter avviare percorso riabilitativi specifici che coinvolgono, non solo il piccolo utente, ma l’intera famiglia che deve necessariamente modificare il modo con cui entrare in relazione con la neurodiversità.
Ma cosa ne è degli autistici adulti, ossia di quelle persone di più di 35 anni che sono sfuggite alla diagnosi precoce? Uno studio pubblicato sul Br. J. Psychiatry ha analizzato più di 10000 persone e di queste solo 172 avevano avuto una diagnosi di disturbo dello spettro autistico.
La maggior parte non lavorava, non era sposata, né conviveva, molti soffrivano di depressione e ansia e per questo erano curati, alcuni avevano una dipendenza da alcool.
Esiste perciò una popolazione adulta, in crisi silenziosa, priva di supporto adeguato, erroneamente inserita nel gruppo dei depressi e degli psicotici, spesso trattati – per non dire sedati – con farmaci prettamente sintomatici, quando sarebbe vincente un approccio relazionale diverso, magari rafforzato da attività lavorative che siano fonti di soddisfazione, scelte in base alle caratteristiche attitudinali.
C’è bisogno di rivedere la diagnosi di quelle persone che sembrano non rispondere alla farmacologia, che mantengono un comportamento oppositivo, nonostante l’azione degli antipsicotici, a causa di una comunicazione non congrua. Viene da chiedersi quanti TSO potevano essere evitati a persone adulte autistiche con tutto l’inevitabile strascico emotivo che inevitabilmente ne segna i comportamenti successivi.
Ci troviamo ad attraversare un periodo particolare nel quale i servizi psichiatrici sono persi d’assalto da un’utenza in difficoltà, smistata dai medici di medicina generale che nel tempo hanno perso la loro funzione primaria di filtro e sostegno delle fragilità con l’ascolto e il contenimento empatico. Questo si traduce in una mancata attenzione dei bisogni del territorio, delle sue criticità alimentando la generale percezione di solitudine e abbandono, che poi sfociano in atteggiamenti problematici.
Gabriella La Rovere