Cosa fare

Rocco pugile-poeta, forse timido ma non autistico!

L’autistico sta diventando di moda. E’ paradossale, ma il fatto che ogni giorno si legga di autistici, in realtà, non cambia di una virgola lo stato di cittadinanza semi fantasma della maggior parte dei neurodiversi.

Marina Viola ci segnala la storia di un ragazzo milanese che scrive poesie e tira di boxe. E’ un po’ silenzioso e chi lo ha intervistato su un noto quotidiano italiano, chissà come mai, ha deciso che fosse autistico, scrivendolo nel titolo.

Ora i colleghi dovrebbero imparare che scrivere “autistico” non è l’equivalente di un’impressione soggettiva, una di quelle che si può provare osservando una persona non troppo espansiva, è la diagnosi di un modo d’essere neurodiverso che solo un clinico qualificato è in grado di fare.

Ciò non significa che essere autistici equivalga a una colpa, ma a chi autistico non è, non è giusto affibbiare un’etichetta che non gli corrisponde. 



Nicolò Vernaglione, diciassette anni, studente del liceo Parini di Milano, è un ragazzo timido, un po’ introverso e molto intelligente. Ha già pubblicato un libro, L’Universo di Traverso (Chimera edizioni), in cui si possono trovare le sue poesie e i suoi disegni.

Mi parlavano di lui, fieri, sua zia Francesca e Federico, milanesi che si sono trasferiti a Boston perché Francesca insegna ad Harvard.

 

.


Nicolò qualche anno fa si è iscritto in palestra per fare la boxe, e lì ha incontrato un giornalista del Corriere della Sera che è rimasto affascinato dal contrasto nella vita di Nicolò, tra l’arte e il pugilato, e ha deciso di scrivere un pezzo su di lui, con tanto di foto. Nicolò, felicissimo, ha detto a tutti i suoi amici di comprare il giornale, perché ci sarebbe stata una piccola storia su di lui. Era emozionato e raggiante.

Poi è arrivato il giorno fatidico: prima di andare a scuola, corre in edicola e il titolo dell’articolo su di lui legge: “Il pugilato come la poesia per il ragazzo autistico”. La diagnosi, inventata dal giornalista, viene così spiegata: “Fa fatica a guardare l’interlocutore (è affetto da sindrome dello spetto autistico)”. L’unica cosa è che Nicolò non è autistico.

Nicolò arriva a scuola, dove tutti i suoi compagni hanno letto la sentenza ed è come se gli fosse crollato il mondo addosso: i suoi quindici minuti di notorietà sono diventati quindici minuti di vergogna e imbarazzo.

Questo è uno degli esempi di cui parlavo la settimana scorsa sul peso delle parole. Certo, chiamare una persona autistica non dovrebbe essere considerato un’offesa: Federico mi dice di aver pensato molto a noi e a Luca in questi giorni, perché non voleva che passasse il concetto che essere chiamato autistico sia un insulto Ma è anche vero che per un diciassettenne che, come tutti i suoi pari, vuole essere come gli altri, sentirsi dare una diagnosi così complessa e soprattutto sbagliata, non può fare piacere.

Ma, a parte Nicolò, mi chiedo se ormai quando una persona magari timida non guarda direttamente negli occhi un adulto, debba essere considerata automaticamente autistica. Mi chiedo da dove siano spuntati tutti questi esperti di autismo. Sento spesso persone dire: “Ah sì, io sono un po’ autistico”, senza sapere che essere autistici spesso significa non saper neanche dirla, una cosa del genere. Dire che una persona è autistica perché si comporta in un certo modo, è come dare del ritardato a una persona che perde le chiavi di casa, o si dimentica di comprare il latte anche se l’aveva scritto sulla lista della spesa. L’autismo è complesso, difficile da gestire e da diagnosticare. Non si può usare come descrizione di atteggiamenti inconsueti senza pensare alle reazioni non soltanto di chi viene appellato in tal modo, ma anche per chi invece vive la condizione quotidianamente.

Mi domando anche quale sia l’immagine dell’autistico per chi non sa nulla del mondo che sta dietro a questa parola, e colgo l’occasione e i miei ventidue anni di esperienza, per aiutare a capire cosa significa davvero essere autistici.

Significa avere grosse difficoltà relazionali.

Significa, spesso, non potersi esprimere verbalmente.

Significa non essere in grado di spiegare quando ci si sente soli, o felici, o di aver voglia di fare pipì, o che i broccoli non piacciono.

Significa non essere in grado, per la maggior parte dei casi, di avere una famiglia, una carriera, un invito a una festa di compleanno o al veglione di Capodanno. Significa avere pochi e scarsi servizi, benché siano un diritto, per facilitare la propria vita e quella di chi sta attorno.

Significa essere discriminati.

Significa ascoltare Nella Vecchia Fattoria e ridere quando c’è il serpente che fa SSSS anche quando si ha 22 anni.

Significa, per noi genitori, rinunciare a una vita, come dire, normale, e tremare dal dolore per quando moriremo, perché i nostri figli finiranno in un istituto e lo sappiamo tutti come sono gli istituti.

Significa una vita non necessariamente più triste o meno appagante, ma senza dubbio più complessa.

Significa, in poche parole, essere nati in un mondo di cubi e scoprire di essere delle sfere.

Poi, è ovvio, l’autismo è uno spettro: c’è gente che riesce a comunicare e a fare un’ottima carriera e chi, come mio figlio, se la fa ancora addosso a 22 anni.

Per cui cerchiamo di non buttare addosso alla gente delle parole come se fossero dei sassi appuntiti, che facciamo anche poche figure di merda. Colgo l’occasione per abbracciare Nicolò, che mi ha incuriosito con il suo mondo di pugilato e arte, e che spero un giorno di poter incontrare.

Marina Viola

marinaliena

Leggi Pensieri e Parole, il mio blog:
http://pensierieparola.blogspot.com
Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche domande….

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

Lascia un commento

Pulsante per tornare all'inizio