Il fantautismo di “Far From The Tree” fatto a pezzi da Marina Viola
L’altra sera ho visto il documentario Far From The Tree (2017), tratto dall’omonimo libro scritto nel 2012 da Andrew Solomon. L’autore spiega che non tutti i figli devono necessariamente assomigliare ai propri genitori, fare le stesse scelte o seguire lo stesso stile di vita.
Il documentario inizia con l’autore che racconta della sua esperienza: nato in una famiglia molto ricca americana, Andrew scopre di essere gay. La notizia fa rabbrividire la madre, che gli spiega che non sarà mai felice e che lei avrebbe voluto avere dei nipoti. Per accontentarla, il giovane Andrew di essere “normale”, provando addirittura ad andare a fare l’amore con delle prostitute, ma ben presto si rende conto di non poter cambiare: lui è fatto così e deve essere accettato dalla sua famiglia per quello che è.
Per validare ulteriormente il suo lodevole messaggio, il signor Solomon espone altri casi in cui i figli nascono diversi da come li avrebbero voluti i genitori, e del difficile cammino verso l’accettazione di figli, come dire, fuori dalla norma. Presenta per esempio la toccante storia di una famiglia benestante americana, tre figli tutti belli e tutti biondi. Un giorno, prima di andare a scuola il più grande dei tre, a 18 anni, sgozza un bimbo di otto e finisce in carcere per il resto della sua vita. Una vita completamente diversa da quella dei genitori che, con le lacrime agli occhi e con enorme imbarazzo, raccontano di come comunque sia andata, è pur sempre loro figlio.
Racconta poi la storia di una donna che ha un figlio con la sindrome di Down, e di come sia stato difficile all’inizio accettare questa diagnosi, ma che adesso, a parte alcuni momenti di tristezza, sia riuscita ad accettare il suo meraviglioso figlio per quello che è. Hanno un rapporto molto bello e si vogliono molto bene.
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Poi è venuto il momento della famiglia con il figlio autistico. Sarebbe stata un’ottima opportunità per spiegare come le persone affette da autismo, ognuna in maniera diversa, siano complesse da comprendere in parte perché la diagnosi include una lacuna comunicativa a volte enorme e che questa spesso porta a momenti di frustrazione sia da parte della persona affetta che da chi se ne occupa. Questa parte del documentario, relativa all’autismo, inizia con una mamma seduta su un divano, che piangendo racconta che quando era piccolo, suo figlio era normale: parlava, salutava, scherzava, e che poi a poco a poco è cambiato ed è diventato quello che è adesso, un ragazzo difficile da gestire, che non parla. “Vorrei solo sapere se il mio bambino è ancora dietro questa corazza autistica”, racconta la mamma giocando nervosamente con il fazzoletto umido tra le mani. Spiega che lei e suo marito hanno provato di tutto: diete, camera iperbarica, medicine, consultazioni carissime, e che niente sembrava servire.
Poi un giorno finalmente, sono riusciti a trovare il metodo per ricongiungersi con il loro figlio: si chiama RPM (Rapid Pronmpting Method), una specie di cugino di primo grado della comunicazione facilitata. È un metodo inventato da Halo Soma Mukhorpadhyay per il quale, facilitando il bambino a puntare a certe lettere o a certi simboli, lo si ‘aiuta’ a comunicare. A differenza della comunicazione facilitata, fortemente critica dalla scienza per essere una fandonia, l’inventrice di RPM sta facendo una battaglia a tutti quelli (e sono in tanti) vorrebbero studiare il suo metodo in modo quantistico, per non influenzare negativamente i genitori.
La mamma del bimbo nel documentario continuava a piangere, ma questa volta di gioia! Il figlio era riuscito a dirle delle cose stupende, ma anche terribili: “Ci sono!”, e anche “Sono incastrato in un mondo orribile!”. Era finalmente contenta: dopo tanti anni di silenzio era riuscita finalmente a comunicare con suo figlio. È un po’ come quando si riesce a comunicare con i morti, credo.
Insomma, una storia brutta con una happy ending per i genitori, che grazie al metodo comunicativo che fa ridere i polli ma in cui loro credono fermamente, finalmente sono riusciti ad accettare il proprio figlio, malgrado quella brutta cosa che è l’autismo. Il documentario finisce con il ragazzino che, a differenza di quando era autistico e assente dal mondo reale, adesso segue con lo sguardo un aeroplano che vola nel cielo terso. The End.
Spengo e lancio una pantofola al televisore.
Ma scusi, signor Solomon, ma dopo tutte queste belle parole, mi sta dicendo che accettare un figlio ‘diverso’ significa sperare che sia il meno autistico possibile? E, così facendo, si permette pure di dare delle false speranze a tutti quelli che guardano il video? Accettare vuol davvero dire pensare all’autismo come a una gabbia in cui i nostri poveri angeli sono stati rinchiusi dall’uomo nero? Ma scusi, signor Solomon, anche lei ha provato a fare la persona ‘normale’ e ad andare a prostitute. Era più contento quando cercava di accontentare la sua mamma? Ma io non so. Non capisco e non capirò mai.
Signor Solomon, sarebbe come se il film finisse che lei si volti a guardare il culo di una donna che passa: cosa ne direbbe la comunità LGBTQ se nel suo film ci spiegasse che in fondo in fondo si può essere come ci voleva la nostra mamma?
Marina Viola
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