Perché proprio a me? L’eterna domanda della madre del disabile
«Perché? Perché proprio a me?» Sono parole urlate con tutta la rabbia e il dolore possibile. Non è la prima volta che le ascolto, io stessa le ho gridate quando, dopo ventiquattro ore di iperattività e frenesia che sembravano non avere mai fine, mia figlia, di appena tre anni, cadde addormentata. Il passaggio dalla veglia esagitata al sonno era stato così repentino che ebbi l’impressione che all’interno avesse delle pile atomiche e che, per fortuna, si erano esaurite.
L’arrivo della disabilità si abbatte sul nucleo familiare come un crimine perpetrato dalla natura. I genitori, catapultati a forza in una realtà non voluta, mai sognata, devono necessariamente dare senso all’assurdità di una nascita dove vita e morte si mescolano. La madre è colei che viene colpita più duramente dal punto di vista psicologico. Durante la gravidanza si stabilisce con il proprio figlio un legame basato sull’immagine pensata, idealizzata e la diagnosi pone la donna sull’orlo di un burrone.
«Perché? Perché proprio a me?» è l’urlo straziante verso un destino che ha voluto accanirsi contro di lei ed è un urlo tanto più dolente quanto più la consapevolezza di sé, prima della gravidanza, era forte, granitica, frutto di traguardi raggiunti in ambito familiare, lavorativo, sociale. A questo punto l’identità è polverizzata, l’autostima annientata.
Ci si accorge della caducità dell’esistenza, di leggi naturali che non è possibile controllare. In una società avanzata, nella quale i progressi scientifici hanno portato allo studio del DNA e alla diagnosi prenatale di alcune malattie genetiche, è sconvolgente rendersi conto che la nostra presunzione di sapere è poca cosa rispetto all’immensità della Natura e delle sue leggi. La nascita di un figlio è in realtà una roulette russa dove ognuno di noi ha la stessa probabilità di prendere la pallottola. La disabilità, insieme alla morte, è una livella.
La fase successiva è quella dell’elaborazione del lutto nella quale l’abbandono, la depressione possono prendere il sopravvento. La voglia di scappare, di mollare tutto viene trasformata in apatia, in totale rinuncia all’azione, al naturale accudimento che una madre dovrebbe avere verso il proprio figlio. Buttata in un letto di dolore, la donna desiste dal proprio ruolo demandando ad altri la cura, lasciando la fragilità del figlio in balia delle circostanze e dell’ambiente.
Il concetto di madre è destrutturato. In una situazione di normalità, il pianto di un bambino viene interpretato come fame o dolore. Il piccolo non è consapevole del significato del forte disagio che prova ed è la madre che ne dà il senso allattando o eliminando il malessere. In caso di disabilità, la donna si trova a decodificare altri segnali ed è grande la frustrazione quando i tentativi per ridurre il disagio sono infruttuosi. Non c’è niente che funzioni e al dolore per aver generato un essere malato, c’è l’avvilimento di non essere una buona madre che va in aiuto del proprio figlio. È come se dovesse imparare a crescere un altro essere, a usare linguaggi differenti. Quando il figlio è autistico, tutto è più drammatico perché, accanto ad un aspetto esteriore normale, c’è la mancata reciprocità, l’impossibilità di condivisione emotiva, la perdita del contatto visivo.
È in questo momento di sofferenza psichica lunga, interminabile, che avviene la riorganizzazione in cui il dolore viene controllato, pacificato. Si dà inizio ad una nuova vita che non guarda al passato, fonte di dolore per tutto quello che avrebbe potuto essere e non è stato, ma neanche al futuro e vive solo il presente nel quale è più facile lottare. La fine del giorno porta ad un altro presente, con gli stessi problemi del precedente, che però si riescono ad affrontare perché si sa che terminano con la notte, alla quale seguirà un altro presente. Psicologicamente si accetta di vivere e lottare nel presente. Prendere coscienza che tutto questo è parte del futuro non è facile da sopportare perché vuol dire essere condannati all’ergastolo per una colpa mai commessa..
Scontrandosi con la disabilità le reazioni di una madre sono diverse. C’è chi nega l’evidenza adducendo comportamenti analoghi in un parente che poi ha avuto una brillante carriera; chi sublima pensieri negativi sul proprio figlio, difficili da accettare consciamente, diventando un genitore perfetto, esempio per tanti altri; chi minimizza il problema parlando di un blocco psicologico che si scioglierà come per incanto; chi non si rassegna e va alla disperata ricerca di qualcosa che possa guarire il figlio, impegnando soldi e tempo in terapie improbabili e altrettanto costose; chi ripara o tenta di farlo mettendo al mondo un altro figlio, anche per avere la certezza che non ci sia niente marcio in lei.
Come dare senso alla vita nonostante il non senso della prova che viene imposta? Ci sono donne che dedicano tutta la loro esistenza al figlio disabile, dimenticando loro stesse, la loro identità. Alcune si impegnano in attività associative, di volontariato, politiche; altre si impongono un’esistenza autarchica che rafforza sempre di più la simbiosi con il figlio; altre si costruiscono un rifugio mentale all’interno del quale si sentono protette.
Essere madre è nella specie umana un compito lungo, faticoso, ma a termine con l’autonomia e autosufficienza del figlio. Non è così in presenza di disabilità dove è necessaria un’attenzione costante in ogni periodo della vita. È un’aberrazione della Natura che, nel mondo animale, viene riparata con l’eliminazione dell’elemento debole nel momento in cui è fuori dalla protezione del branco. La società attuale è iperselettiva e ha costruito luoghi di raccolta degli elementi fragili con il falso scopo di aiutare i genitori, in realtà condannando i loro figli ad una vita priva di senso, vanificando con un colpo di spugna anni di sacrifici, di rinuncia della propria esistenza.
Il dolore di una madre inizia forte con il travaglio e il parto, è costante per tutta la vita erodendone lentamente la salute fisica e psichica. Ritorna ad essere devastante al termine della sua esistenza quando la consapevolezza di lasciare il figlio alla mercé del branco la pone dolorosamente di fronte alla scelta che aveva scartato all’inizio della sua storia.
Gabriella La Rovere