Quel ragazzo autistico figlio del poeta nel racconto di Yehoshua
In un racconto scritto nel 1966 da Abraham B. Yehoshua: “Il poeta continua a tacere”, viene affrontato, come meglio non si potrebbe, il dopo di noi. Narrato in prima persona, il poeta è un uomo vecchio, stanco, disilluso, che ha da tempo smesso di scrivere poesie. Non si capisce se per aridità creativa o per la paura di confrontarsi con i giovani poeti e una scrittura che si è modificata, specchio dei tempi. Ha due figlie e, quando ormai sia lui che la moglie sono sulla soglia della vecchiaia, nasce un figlio non voluto, per errore, per una specie di miracolo maledetto.
Si capisce subito che qualcosa non va, è la sua crescita lenta a sottolinearne lo stato. Il racconto è infarcito di descrizioni del comportamento del ragazzo che portano a dedurre che sia autistico. Nel 1966 si è ancora lontani dal parlare di neurodiversità e forse lo scrittore rifiuta coscientemente di classificarlo, inducendoci a riflettere sulla attuale, pressante, richiesta di diagnosi che fa perdere di vista l’unicità della persona.
La madre muore dopo pochi anni; il piccolo, che ha sei anni, non era attaccato a nessuno della famiglia, viveva solo con se stesso […] La perdita della madre non gli fece alcuna impressione. Il padre lo tiene nascosto agli occhi degli altri, le sorelle sono in età da marito. Ai ricevimenti e alle feste che le due figlie organizzano, il padre lo tiene fuori casa e, quando il tempo non lo consente, lo nasconde nella cameretta della servitù.
A scuola viene isolato, siede all’ultimo banco, non si sa se volutamente o per scelta degli insegnanti. Non è in grado di seguire la lezione, scrive con difficoltà, la matematica gli è ostica. Gli insegnanti lo tollerano e, tutte le volte che ci sono i colloqui, chiedono al padre fino a quando devono sostenerlo, visto che non c’è più nessuna speranza. Insistevano perché lo portassi via da quella scuola. E dove dovevo portarlo? Non lo sapevano. Da qualche altra parte. Forse bisognava rinchiuderlo in istituto… Sono laceranti quei tre punti di sospensione, e la possibilità di metterlo in una struttura per dimenticarlo ritorna più avanti; sono le sorelle che lo propongono al padre, ma, nonostante lui non accetti la disabilità del figlio – Comunque, non mi assomiglia, e tra noi c’è solo un filo sottile – rifiuta fino alla fine di condannarlo ad un ergastolo, senza colpa e senza significato.
Il ragazzo cresce, le abilità migliorano. È in grado di svolgere e portare a termine dei compiti semplici. Tiene pulita la casa, lucida le scarpe al padre, gli prepara la valigia quando deve partire. Tutto ciò rasserena il poeta perché ha l’illusione che non sia totalmente ritardato; ha uno slancio di affetto verso di lui e, dopo tredici anni, gli organizza la sua prima festa di compleanno. Vi partecipano solo i compagni di classe. Nessun maestro si scomodò a venire. Nessuna bambina osò venire. Tutti portano lo stesso regalo: un astuccio di poco prezzo. Mi stupii molto che nessuno gli avesse regalato un libro. Come se pensassero che non fosse in grado di leggere.
Il racconto ha una svolta quando il ragazzo scopre che il padre è un poeta, vuole che scriva qualcosa e, soprattutto, cerca di imitarlo. Inizialmente dissemina per la casa i vecchi fogli di appunti dove il vecchio scriveva frasi o impressioni che sarebbero poi diventate lirica; successivamente lascia biglietti con frasi scritte da lui, probabilmente ricopiate. E tanti fiori che riempiono la casa di colore e profumo. La risposta del padre non è quella attesa, strappa davanti a lui i resti dei quaderni, toglie i fiori da tutti i vasi. Il ragazzo entra in crisi e scappa. Il vecchio non è più in grado di controllare e guidare i passi del figlio che sta diventando un uomo. Pensieri di separazione mi frequentavano sempre più spesso. È stanco, comincia a pensare di lasciare il lavoro, vendere la casa e fuggire lontano, non sa dove.
Il dopo di noi irrompe in tutta la sua drammatica malinconia. Si consulta con le figlie e i generi e questi trovano una sistemazione decorosa, inclusiva. Il ragazzo starà con un rilegatore e sua moglie, con la possibilità di aiutarlo nel lavoro. Il vecchio va a conoscere la coppia portandosi il figlio. È straziante il tentativo del padre di rendere accettabile l’allontanamento, andando a toccare le corde dell’autostima. È solo nel momento del distacco che gli riconosce una somiglianza: è un poeta e, grazie al rilegatore, potrà pubblicare le sue poesie.
Il vecchio è sempre sul punto di partire. Una nave l’ho lasciata andare, un’altra già mi aspetta. È difficile, anche per chi è sfinito da una vita di totale accudimento, tagliare il cordone ombelicale che lo unisce al figlio, pensare di avere un tempo a propria disposizione. L’indipendenza è un vocabolo desueto.
Gabriella La Rovere