Per i 110 anni dalla nascita di Mario Tobino
Mario Tobino nacque il 16 gennaio 1910 a Viareggio da una famiglia benestante originaria della Liguria. Il mio babbo aveva il genio, e la mia mamma aveva l’aristocrazia – lei che venne poi celebrata nel romanzo “La brace dei Biassoli”, un canto alle sue antiche e nobili origini.
Mario, figlio del farmacista con il negozio nel “Piazzone”, riuscì a raccontarsi nel libro “Il figlio del farmacista”, pubblicato nel 1942, primo lavoro in prosa dopo gli inizi con la poesia. Nel romanzo l’io narrante e il figlio del farmacista sono Tobino stesso, in uno sdoppiamento che consente di raccontare con obiettività e disincanto, di rivivere emozioni senza pathos. Come nel caso che lo vide ingiustamente accusato, quando era poco più di un bambino. Un ladro attraversò la piazza, gremita di ragazzini che giocavano, inseguito da una guardia municipale. Una delle donne, un poco discinta, guardando il brigadiere che guardava non ebbe alcuna esitazione ad affermare che il ladro, mentre era in fuga, avesse dato qualcosa al figlio del farmacista. Il bambino fu frugato dal brigadiere e, durante questa palpazione, il bambino riguardò intorno, per la prima volta inconsapevolmente legato da una grande tristezza.
Ogni capitolo del libro è un racconto a parte, con diverso stile, alcuni carichi di lirismo come quello sulla poesia. È la poesia un male peggiore del cancro, peggio della tisi, che almeno di queste malattie si muore, mentre invece della poesia si soffre soltanto. La poesia che è strega, ma non quella delle favole, la poesia che è fiore, ruscelli infiniti, che è luce. Fare poesia vuol dire non essere più soli. Il poeta è vero, vivo in sé; è il mondo, e tutti sono in lui.
Le ore passate in solitudine sono state per il figlio del farmacista un arruffio di sogni. Dall’adolescenza ai trent’anni, la sua immaginazione è stata fervida al pari delle grandi fiammate nel camino, una fantasia che si è progressivamente liberata di imprecisioni e debolezze per diventare matematica, quasi una scienza esatta. Il figlio del farmacista, conosciuta una persona, ha la facoltà di fissarla con precisione dentro di sé e saperne senza sforzo vizi e virtù […] Vivendo così gran parte della giornata con uomini e donne di ogni specie il figlio del farmacista si è oltremodo arricchito nel sapere in un attimo giudicare una persona appena vista.
Lui stesso affermò poi in un’intervista che era portato a leggere al di là della fronte, a immedesimarsi nell’altro, quell’empatia che è possibile quando si convive con la propria fragilità, traendone forza ed energia propositiva. Non si può fare psichiatria senza essere accompagnati (forse) almeno da qualche traccia di insicurezza e di ininterrotta riflessione sul senso, e sul nonsenso, delle parole che si dicono e delle cose che si fanno (Eugenio Borgna)
Il 9 luglio 1942 Tobino entrò all’ospedale psichiatrico di Maggiano – il Magliano delle sue più importanti opere – dove vi resterà per 40 anni, vivendo là dentro, a stretto contatto con i malati, condividendo lo stesso panorama dalla finestra. L’ultimo capitolo del libro, Del perché il manicomio, è un assaggio di quello che rappresenterà l’humus delle sue opere maggiori.
Da che cosa sia lasciato prendere il figlio del farmacista per abbandonare tutto il resto e venire in manicomio lo so bene. È la solita poesia, per lei, perché in un manicomio così fatto come questo egli ha pensato che ella può venire a lui, essendo qui silenzio, la campagna attorno avendo sentieri per cui essa può camminare, il cielo essente così che in quello possa volare.
Un delirio amoroso, simpatetico con quello dei matti, che consente l’immedesimazione intima, di indossare i panni scomodi
, e che trova pace nella solitudine alienante del manicomio, perché c’è poesia anche dove sembra non esserci, ed è forse la più bella. Così il figlio del farmacista si trovò a dialogare con i matti, a parlare la loro stessa lingua, che è la poesia, tanto rincorsa e desiderata, perché – come afferma Borgna – la follia è la sorella sfortunata della poesia con il suo lancinante dolore dell’anima, con la sua stremata sensibilità, e con la sua straziata nostalgia di vicinanza e di amore.
“I matti – che in seguito Tobino descriverà come Don Chisciotti senza che nessuno li ami, e che non possono camminare su un ronzino al chiaro di luna – sono creature degne d’amore”, e così volle che venisse scritto sulla copertina del romanzo “Libere donne di Magliano”. I sentimenti rimangono intatti, anche nel più devastante delirio; la follia si annida nella mente, gli affetti e il cuore rimangono in disparte, in esilio e, quando la mente si placa, ritornano al mondo, innocenti, puri e invincibili.
Bellissimo il passo che racconta di un malato, che era stato un contadino e che venne interpellato per identificare un insetto presente sul muro del padiglione manicomiale. L’uomo lo riconosce dicendone il nome in dialetto, e a quel punto lo sguardo cambia illuminandosi perché c’è la gioia nel riprendere, in quelle risposte, antico suo compito della vita, di riprendere la dignità dell’uomo che collabora spontaneamente a questo nostro vivere insieme, uno aiutando l’altro! Perché, usando le parole di Borgna, non c’è cura nella psichiatria se non nella relazione interpersonale, in un rapporto che guarda oltre la follia.
Gabriella La Rovere