Pensare Ribelle

Pensieri post lockdown per chi si occupa di cervelli ribelli

“Se la vita ti dà dei limoni, fatti una bella limonata”, citazione da un libro di Stephen King che potrebbe essere il manifesto delle tante famiglie impegnate nella cura di una persona con disagio cognitivo e/o relazionale. A distanza di quasi quattro mesi dal confinamento forzato entro le quattro mura domestiche, si possono analizzare gli effetti dovuti prima alla chiusura e poi alla ritrovata libertà. In tutte e due i casi i caregivers familiari hanno dovuto sostenere lo sconquasso emotivo che ha travolto il quotidiano delle persone con neurodiversità.



All’inizio di questa pandemia non poter uscire, quando per alcune persone autistiche la possibilità di muoversi in ampi spazi rappresenta una valvola di sfogo a pressioni ambientali e sensoriali, è stato incomprensibile e, perciò, più che traumatico. Non dimentichiamo che la neurodiversità ha tante espressioni che variano dalla persona con alto Q.I., che nel tempo ha trovato la maniera di convivere in una società prevalentemente neurotipica, alla persona averbale con grave ritardo cognitivo. E tra l’alfa e l’omega, le meravigliose ed infinite sfumature dello spettro che caratterizzano i nostri figli.

L’interruzione di una routine, che ha anche il significato di scandire il tempo – elemento incomprensibile per alcune persone autistiche – ha determinato la perdita di punti di riferimento e la comparsa di crisi di ansia generalizzata che ha impegnato ogni componente della famiglia. Nel giro di poco tempo, i caregivers hanno assistito alla regressione comportamentale con ricomparsa delle stereotipie, degli accessi di rabbia e dello stato depressivo reattivo. Chi aveva superato l’avvilimento di vedere il proprio figlio mangiare solo bianco, si è trovato a rivivere la stessa insoddisfazione.

La situazione si è capovolta favorevolmente – e da qui l’ennesima limonata – quando sono state riproposte delle routine all’interno del confinamento domestico. Le videochiamate e la didattica a distanza sono state l’ancora di salvezza per quelle famiglie con possibilità di accesso alla rete e in grado di fronteggiare una vera sfida digitale. La pandemia ha messo in evidenza il digital divide, di cui si è tanto parlato nel passato, non soltanto tra stati a livello globale, ma anche tra diverse persone o gruppi sociali di una stessa area e tra regioni di uno stesso stato.

Questa emergenza ha accelerato lo sviluppo di strumenti di valutazione basati sulle tecnologie. L’uso di piattaforme per videoconferenze, come Zoom, hanno modificato la comunicazione scientifica portando ad ipotizzare che nel futuro questa possa essere una strategia per ridurre i viaggi in aereo e il riscaldamento globale. Personalmente ho qualche dubbio sulla diagnosi on line di autismo e sulle sedute di terapia cognitiva-comportamentale per le quali è fondamentale osservare il bambino nell’ambiente. Lo spostamento di molte delle attività di diagnosi e cura in rete obbligherà gli operatori del settore a mantenere un’alta qualità del servizio, a sottostare a codici di comportamento, ad avere strumenti di Intelligenza Artificiale a supporto del processo decisionale clinico on line. Sarà possibile? Mah!

Non possiamo negare la preoccupazione che gli enormi costi per controllare la diffusione del virus possano andare a discapito della ricerca sull’autismo. Senza allontanarci dai nostri confini, stiamo assistendo impotenti a tutte le misure di sostegno per “le famiglie del Mulino Bianco” (il bonus baby sitter che potrà essere dato ai nonni e agli zii), senza una parola di considerazione per l’emergenza psichica ed economica vissuta da chi ha in casa una persona con disabilità cognitiva.

Non è inoltre da sottovalutare la possibile onda lunga dell’autismo nel breve-medio termine. Quando tra il 1963 e il 1965 ci fu un’epidemia di rosolia, il 10% delle donne in gravidanza risultò infetto, causando 13.000 morti fetali o subito dopo la nascita, 20.000 nati con grosse malformazioni e 10.000-30.000 con disturbi del neurosviluppo. È quindi preoccupante che il 15% delle donne in gravidanza in attesa del parto è risultato positivo al coronavirus e molte di queste erano asintomatiche.

Il ritorno alla normalità ha messo in evidenza il vero distanziamento sociale. Alcune residenze protette che ospitano adulti autonomi con disagio psichico si trovano ancora nella fase 1 portando molti utenti a domandarsi come mai tutta l’Italia può andare al bar, a fare una passeggiata, mentre a loro è negato. Ogni ipotesi è possibile, anche la più fantasiosa, perché la pandemia da COVID-19 non ci ha reso una società migliore, né tanto meno solidale.

Gabriella La Rovere

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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