Ancora un genitore anziano per cui l’omicidio è l’unica soluzione possibile per il figlio disabile
Ci risiamo. È uno dei commenti al link su Facebook dell’ennesima tragedia consumata nella solitudine di una famiglia con due figli disabili, uno di 47 anni e l’altro di 51. Il padre, 88 anni, angosciato da cosa sarebbe capitato alla sua morte, ha messo in atto quello che, alla fine, sembra essere l’unica via possibile. L’omicidio, per quanto discutibile, è l’ultimo e più disperato atto d’amore verso un figlio cresciuto con lacrime e sudore, rinunciando ai propri sogni, riscrivendo l’esistenza in funzione di accertamenti diagnostici, ricoveri, farmaci, terapie riabilitative, assistenza domiciliare.
Natali, spesso malinconici, con regali comprati per tradizione, perché la convinzione che tuo figlio non possa comprendere niente di cosa stia succedendo è un tarlo che giorno dopo giorno rosicchia ogni speranza. Capodanni che chiudono un anno difficile, faticoso, per aprirne un altro perfettamente uguale a se stesso. E per chi ha ancora un briciolo di fede, la preghiera è l’antidoto a che niente di nuovo succeda, perché solitamente gli imprevisti stravolgono una routine conquistata con difficoltà. Pasque, che altro non sono che domeniche nelle quali si mangia la lasagna e l’agnello al forno, unico stravizio mantenuto. Ponti del 25 aprile e del 1 maggio maledetti perché, mentre tutti godono di qualche giorno di vacanza, si sa che sarà tutto ancora più complicato da gestire. Estati da dimenticare che, anno dopo anno, consumano soldi ed energie. È così da sempre, da quando una nascita o una diagnosi ha tracciato un confine che ti separa dal resto dell’umanità, spesso annoiata dal troppo benessere. E nella parte di mondo nella quale sei costretto a stare, le persone conducono vite altrettanto solitarie e sospettose.
L’11 settembre è stato il giorno che più ricorderai. Quando incredulo hai visto i due aerei attraversare le torri gemelle, hai pensato subito alla terza guerra mondiale, ai bombardamenti, alle macerie, ai farmaci introvabili, al cibo razionato. Giorni pieni d’angoscia, notti insonni pensando a soluzioni meno traumatiche per tuo figlio disabile. Con il passare dei mesi, hai iniziato a sperare e a rallegrarti per lo scampato pericolo e la vita è ritornata ad essere sempre solitaria e faticosa.
Ma al peggio non c’è mai fine. E come se non bastassero tutte le difficoltà quotidiane, è arrivata la pandemia che ha dato il colpo di grazia alla schiera dei genitori anziani, quelli che il Ministero della Salute ha messo nella categoria dei fragili, di quelli che solo un miracolo può salvarli da una polmonite mortale. Chiusi in casa con il figlio disabile adulto hanno vissuto, e tuttora vivono, giorni pesanti. L’isolamento ha aggravato il comportamento già difficile da gestire, creando nuove ossessioni, paranoie, deliri. La percezione del dopo di noi è come esplosa nella testa e, guardandosi attorno in questo Terzo Millennio, ogni genitore ha avuto l’amara consapevolezza che niente fosse cambiato nella società, che inclusione fosse solo una parola del vocabolario, usata soprattutto in campagna elettorale. Durante i primi drammatici mesi della pandemia, la morte delle persone disabili è passata sotto silenzio, come se non fossero persone ma solo malati. Ci sono state decimazioni all’interno di case di cura, di istituti nei quali le norme anti-Covid sono state applicate solo alla fuga dei buoi dalla stalla, dando così una mano alle casse dell’Inps. Tutto questo è sempre troppo da sopportare.
L’omicidio del proprio figlio non deve essere la soluzione, frase che sento da ventotto anni senza che niente sia cambiato, che ci sia lo stesso deserto attorno, che le strutture ricettive per adulti disabili siano dei manicomi dell’era ultramoderna dove ognuno è solo una retta fornita dallo Stato o dal privato. Il pericolo, spesso la certezza, della perdita della dignità del proprio figlio, cresciuto a lacrime e sudore, è il grilletto che viene premuto.
Gabriella La Rovere