Sui “Pasticcini mandorlati” si sgretola l’autostima del maschio alpha di italica stirpe
Premetto che per quanto segue potrebbe profilarsi l’accusa di indulgere su infami stereotipi razziali. Mi assumo il rischio dell’esecrazione da parte di ogni possibile anima bella, non posso comunque fare a meno di lanciare questo allarme per allertare i custodi dell’integrità del maschio Alpha tricolore. Attenzione signori! Ancora non ve ne sarete accorti, però sappiate che il “pasticcino mandorlato” incombe minaccioso su chi, tra voi, ancora si culla sulla rendita perenne del consunto italians do it better.
In realtà il termine non ha nulla a che fare con la discriminazione o il disprezzo, anzi è un inno alla perfezione di prodotti di sintesi tra l’umano e l’artificiale, carne e silicone in edizione Oriental Fusion, sintetizzati in una definizione metaforica che racchiude sensuale golosità, materna tenerezza, orfica complicità. Tutto in oniriche perdizioni, consumate tra salotto e cucinino, in sinuosa simbiosi con interminabili serie tv prodotte nell’estremo oriente e divulgate attraverso le più note piattaforme digitali.
A chiamare “pasticcini mandorlati” i protagonisti maschili dei “Drama”, soprattutto coreani, potrebbero essere le nostre mogli, le nostre mamme, le nostre sorelle che condividono, anche con molta autoironia, in gruppi Facebook la loro innocentissima, quanto affocata, passione per dei bei pupattoli, totalmente ricostruiti da interventi radicali di chirurgia plastica, dall’alluce alla punta dei capelli. Eppure le loro foto ammiccanti girano nei gruppi con commenti al calor bianco: “Quando questo gnocco di oggi fu impastato la ricetta andò perduta …mianhae …Sung Hoon meraviglia delle meraviglie.” Oppure: “Sembra che siamo tutte in fissa per la stessa cosa bello però!!! Siamo dentro questo vortice meraviglioso, chiamato anche, pasticcino mandorlato…. ”
I giovani attori coreani, impassibili, algidi e spietati, fanno così vittime tra i nostri fornelli. Ogni divo di “Korean Drama” ha l’effetto di una belle dame sans merci agli occhi sognanti delle nostre signore romantiche, collettivamente illanguidite in transumanze feroci tra la tv, il computer il display dello smartphone. Giornate intere dedicate a seguire, in ogni interstizio temporale possibile, il filo intricato di vicende che possono durare qualcosa come 24 ore, se sommiamo tutte le puntate che mediamente compongono una stagione di Korean Drama.
Sono proprio donne italiane che, per la maggior parte in occasione del lockdown, hanno costruito sorellanze digitali attorno un prodotto da intrattenimento che è stato pensato per un pubblico a latitudini lontanissime. Sono donne stanche di cullare il loro immaginario su canottiere stramate, fantasmini e snikers puzzolenti, polpacci tatuati col tribale, birra, rutti, amici del calcetto e “famose du’ spaghi”. Amano piuttosto condividere, come se fossero parte reale delle loro esistenze, le intricatissime vicende eroico sentimentali di real doll che si chiamano Hyun Bin, Gong Yoo, Lee Dong-Wook, Choi jin Hyuk.
I titoli sono centinaia, i generi vanno dalla rievocazione del passato epico, ai polizieschi, alle narrazioni distopiche, infine le storie d’amore che sono le più gettonate. Per il primo bacio si aspetta non meno di 8 puntate, le scene di sesso assolutamente inesistenti.
iamo di fronte a un popolatore di spazi mentali paralleli, che potremmo assimilare al successo delle prime telenovela brasiliane, o messicane, arrivate nei nostri televisori a metà degli anni 70. La differenza è che, in questo particolare frangente storico del nostro Paese, il telefilm orientale sta compiendo un sotterraneo e implacabile percorso emotivo verso la leggerezza totale, una felice liberazione da zavorre nei confronti di ogni diversità.
I K-Drama sono un prodotto televisivo dalla storia affascinante e travagliata, nascono a metà degli anni venti del secolo scorso come radiodramma, per conservare l’orgoglio dell’appartenenza nazionale nell’atroce periodo dell’occupazione giapponese in Corea. Dagli anni duemila una catena “industriale” destinata anche all’esportazione, in Italia sono oramai presenti sulle maggiori piattaforme streaming come Netflix o Amazon Prime; il vero paradiso per le vestali del mandorlato è però “Rakuten Viki”, la piattaforma che offre, anche gratuitamente, una moltitudine di opzioni, sottotitolate in italiano, spesso per opera delle stesse cultrici del genere. È possibile scegliere, oltre le storie romantiche prodotte in Corea del sud, anche quelle girate nelle Filippine, in Giappone, a Hong Kong, in Cina Continentale, Taiwan, o in Tailandia, dove impazza il genere classificato BL (Boy’s Love), che racconta con una delicatezza disarmante “normali” storie d’amore tra giovani maschi.
Le sceneggiature sono scritte al novanta per cento da donne, è indubbio che i K.D. siano infarciti da stereotipi di ogni genere, però piacciono, come piacevano alle nostre bisnonne gli stereotipati aviatori di Liala, alle nonne gli eroi cotonati del fotoromanzo. La differenza rispetto ogni passata forma di letteratura definita “rosa” è che il Drama orientale sta scardinando alla base una gran parte del nostro pregiudizio più mimetizzato, lo fa a nostra insaputa e lavorando sull’angelo del focolare, colei che ancora qualcuno immagina come il nucleo più intangibile della (presunta) sacralità della famiglia tradizionale.
Gianluca Nicoletti
(pubblicato su “Specchio” domenicale de LA STAMPA”)