Non tutti i disabili possono essere supereroi
Non sempre chi è disabile sviluppa i superpoteri. È vero, abbiamo appena condiviso uno spettacolare momento di orgoglio nazionale per i nostri atleti paralimpici, che si sono fatti onore in Giappone. Ieri mattina però in una villetta di Borgo Santa Croce a Macerata è stata trovata un’intera famiglia putrefatta, i termosifoni erano ancora accesi.
Il figlio era stato reso disabile da un incidente, la madre passava le giornate allettata perché invalida, il padre di 81 anni accudiva tutti in totale solitudine. È probabile che la morte fosse già entrata in quella casa prima che arrivasse il tepore della primavera, però si sono accorti che erano spariti quando l’autunno comincia appena a sentirsi nell’aria.
C’è nesso atroce tra il buio e la solitudine che avrà avvolto negli ultimi mesi quei corpi appartenuti a umani inabili, con i tanti riflettori accesi di tripudio mediatico, nel celebrare quella fantastica stirpe di eroi senza arti, ciechi, sulla sedia a ruote, capaci di sconfiggere ogni limite raggiungibile da umani con dotazioni corporee regolari.
Sono affascinato per quanto già accarezzino il futuro quei bellissimi ragazzi e ragazze, stanno sovrascrivendo sulla loro carne tutti i più arcaici pregiudizi sull’intangibilità della simmetria imposta dalla natura, compiendo prodigi atletici con quello che hanno a loro disposizione, sempre più spesso in felice connubio con metallo, fibra di carbonio, polimeri e tecnologia post umana.
Allo stesso tempo mi coglie una sconfinata e lancinante tristezza pensando in quale deserto dovessero sentirsi quei tre esseri umani dai corpi compromessi e fragili, per malattia o per sinistro o semplicemente per l’età avanzata. Nessun prodigio per loro, nessun presidio da cyborg, nessuna tecnologia collaborativa che supplisse a gambe che non reggono più il peso della persona, mani che non riescono a stringere, muscoli atrofizzati.
E’ vero che lo sport paralimpico ha sconfitto l’anatema funesto che accompagnava, dalla notte dei tempi, ogni persona ipocritamente definita “offesa” nel corpo o nella mente; la bellezza prepotente di quelle ragazze e di quei ragazzi dalle capacità mirabolanti ci ha regalato la possibilità di gettare uno sguardo nel migliore dei futuri possibili, dove non esiste più un canone di perfezione, magari legato alle obsolete auree proporzioni dell’uomo vitruviano. Ora sappiamo che il corpo può essere riprogettato a piacere, corroborato o integrato. Diventa più forte e più bello di prima.
È anche vero però che per quanto tale profezia esalti e rassicuri chiunque, regala leggerezza collettiva nel percepire le persone disabili, fragili e fuori standard solo per il tempo dei giuochi. Quando le luci si spengono gli dei tornano nel loro Olimpo e chi era invisibile resta fantasma.
Come sempre poi accade, anche per tre morti abbandonati di Macerata ci sarà un sindaco che si farà portatore del dolore della comunità tutta, qualche collega come me ci scriverà un epitaffio sul dramma della solitudine. La cruda realtà purtroppo resta quella che rispetto alla disabilità e alla fragilità in genere siamo un paese crudele e arretrato.
Quell’uomo vecchio e malandato da solo preferiva occuparsi lui di moglie e figliolo, che per legge avrebbero avuto pieno diritto di assistenza domiciliare e sostegno adeguato da parte dello Stato. Avrebbe potuto affidarli e affidarsi a qualche istituto specializzato, in quel caso sarebbe di sicuro stata pagata con denaro pubblico una cospicua retta a chi se ne fosse occupato.
Qualcuno si chieda allora il perché di quella scelta; troverà risposte anche sulla loro uscita silenziosa dalla comunità degli umani, per cui già non esistevano più.
(Gianluca Nicoletti La Stampa 7 settembre 2021)