Quando il figlio autistico va a vivere altrove
È arrivata.
La lettera che ci fa trepidare di terrore e di una specie di felicità è arrivata.
In una busta bianca, normalissima, manco fosse una lettera come un’altra, una bolletta, una pubblicità. È indirizzata a Dan, ma visto che arriva dal Dipartimento dei Servizi per i Disabili, la apro anche se sono sulla porta e sto per uscire.
L’ho letta due volte e per due volte mi è venuto come un conato di vomito. Ho chiamato Dan, che lavora nel seminterrato. “Vieni! Vieni subito!” Mi risponde arrivo!, ma con la voce preoccupata. “È successo qualcosa?”
Gli passo la lettera. Due paragrafi, una firma che sembra un elettrocardiogramma.
Il Dipartimento, dopo aver ascoltato Dan al telefono, ha preso la seguente decisione: Luca è entrato a far parte della lista delle persone disabili che hanno bisogno di una nuova residenza il più presto possibile. Il dipartimento ha novanta giorni, in teoria, per trovare una stanza in una casa-famiglia per mio figlio.
In poche parole: va a vivere da un’altra parte.
È successo che da circa tre mesi Luca ha cominciato a mostrare atteggiamenti autolesionisti: prende il suo iPad e se lo tira sulla fronte più forte possibile, rompendo (tra l’altro) lo schermo, che potrebbe tagliarlo. All’inizio lo faceva tipo settemila volte al giorno, poi un po’ meno, ma adesso sta ritornando. Siccome io ero a Milano per assistere mia mamma, che è venuta a mancare alla fine di dicembre, pensavamo che fosse un modo per esprimere la sua tristezza per la mia assenza. Luca, infatti, è ossessionato da me, tanto che spesso e volentieri mi becco anch’io delle botte da lui. Credo che sia il suo modo per attirare attenzione, che vuole che io abbia soltanto nei miei confronti. Infatti, è un atteggiamento che peggiora se io sono al telefono o se parlo con qualcuno. Mi tira i capelli, me li morde, strappandomeli, mi tira dei pugni in testa, mi graffia la braccia, mi morde. Questo va avanti da ben più di qualche mese. Lo fa da tanto tempo. L’autolesionismo, invece, è un atteggiamento nuovo, che ci preoccupa.
Io e Dan ne abbiamo parlato con Tim, il coordinatore del dipartimento dei servizi per disabili assegnato al caso di Luca, e lui ha risposto che, visto che Luca ha 25 anni e che sta diventando sempre più aggressivo con me e adesso con se stesso, forse è il caso di cominciare a pensare di trasferirlo in una casa famiglia. “Ma prima”, dice Tim, “dovete rispondere al questionario per stabilire in quale delle liste dovemmo mettere il nome di Luca”.
Tim si riferisce alle due liste: una è per le persone che vivono in una situazione di disagio, oppure in cui i genitori non ce la fanno più. Per queste persone, il dipartimento si impegna a trovare un posto entro novanta giorni. Anzi, due posti, e i genitori possono sceglierne uno. Se non vanno bene, si ritorna alla fine della lista. La seconda, invece, è per tutti gli altri, cioè quelli che hanno l’età giusta per iniziare una vita lontani dalla famiglia, ma non hanno molta fretta. Per loro, si parla di due o tre anni minimo prima che si trovi una sistemazione.
Diciamoci la verità: Dan ha un po’ esagerato nel rispondere alle domande. Ma ha spiegato che la mia dottoressa mi ha dato una pastiglia in più per la pressione e una in più per la costante depressione alta (che è vero), che ci sveglia alle quattro del mattino (che è vero), che sono venticinque anni che non ci siamo neanche potuti permettere un fine settimana tranquilli senza pagare quattro, cinquecento dollari a botta. E sì, ha ammesso: noi siamo stravolti. La signora che faceva le domande non si è sbilanciata. Ha preso nota e ha semplicemente detto che Tim ci farà sapere in quale delle due liste saremo.
Siamo in quella dei più bisognosi, specifica la lettera che abbiamo ricevuto; dunque, al più presto (in teoria) Luca avrà la sua cameretta in una casa con altre tre persone disabili come lui. Continuerà ad andare al centro, e nel pomeriggio tornerà nella sua nuova casa.
Abbiamo parlato con un’amica che per lavoro segue alcuni di questi appartamenti. Dice che sono molto belli e che prima di proporre ai genitori un posto, il dipartimento si incontra per capire quale sia il posto migliore per ogni utente. Valutano gli altri inquilini, i bisogni della persona e altro. “So che è difficile per voi genitori, ma credetemi, chi inizia una vita fuori dalla famiglia spesso diventa molto più indipendente ed è felice. E dovete anche pensare a voi, senza avere alcun senso di colpa. Non c’è niente di male nel volere una vita più semplice e preparare Luca a una vita senza di voi”.
Il discorso non fa una piega, ovviamente. Ma diciamocelo: non lo facciamo solo per Luca, lo facciamo soprattutto per noi, perché davvero essere menati ed essere incarcerati in casa va bene fino ad un certo punto. Poi però, se ci sono posti che si occupano di persone come lui, allora al senso di colpa si contrappone una specie di pace interiore, di sollievo. Luca non può stare sempre con noi: non fa bene a lui e neanche a noi.
Detto ciò, sarebbe come mandare un bambino di quattro anni a vivere con altri bambini di quattro anni così stiamo più tranquilli noi, ed è con questi pensieri che ritornano senza tregua i sensi di colpa ed è da questi pensieri che cerco in tutti i modi di fuggire.
Perché prima o poi il cerotto deve essere tolto, anche se fa male.
Marina Viola
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