Autismo, sensorialità e musica
“All the perceptions of the human mind resolve themselves into two distinct kinds, which I shall call impressions and ideas.”
“Ogni percezione della mente umana può essere distinta in due categorie, le impressioni e le idee.”
– David Hume, “Trattato sulla Natura Umana”
La percezione del mondo esterno attraverso gli stimoli sensoriali rappresenta un elemento cardine della vita di ogni essere umano, soprattutto come strumento conoscitivo per comprendere sia la realtà esterna che noi stessi.
L’integrità del neurosviluppo dipende infatti dalla complessità dei rapporti tra il substrato genetico di un individuo, la biologia, gli stimoli esterni e la loro modulazione, in un “dialogo” continuo che ci accompagna per la maggior parte della vita (si pensi al modello biopsicosociale proposto da Engel nel 1977).
Proprio gli aspetti sensoriali sono tra i più forieri di preoccupazioni e problematiche in ambito familiare per quanto concerne il Disturbo dello Spettro Autistico (ASD), intaccando ambiti del funzionamento più articolati; basti pensare alla selettività alimentare, agli interessi assorbenti e all’hyperarousal, ovvero l’iperstimolazione che conduce spesso i giovani all’interno dello spettro verso crisi comportamentali.
E’ altrettanto vero che la variabilità sintomatologica è estremamente ampia tra individui diversi, sia in termini di iposensorialità (come l’elevata soglia del dolore e la ridotta discriminazione termo-dolorifica) che di ipersensorialità tattile, gustativa, olfattiva o uditiva: tra gli esempi iconici vi è la tendenza a mettersi le mani sulle orecchie o mostrare evidente frustrazione di fronte a suoni non particolarmente forti dal punto di vista dei “neurotipici”.
Quali sono le possibili spiegazioni in merito?
Allo stato dell’arte vi sono numerose evidenze scientifiche atte a spiegare alcune delle peculiarità sensoriali nell’autismo. Tra i concetti principali vi è l’aumento di connessioni neurali a corto raggio a discapito della connettività a lungo raggio (specie tra le aree fronto-temporali e cortico-sottocorticali). Il sistema nervoso centrale è obiettivamente complesso e numerose funzioni sono “integrate” tra loro: la percezione dell’immagine di un volto ad esempio (giro fusiforme) da sola non basta a spiegare il riconoscimento dello stato emotivo correlato all’espressione facciale. La carenza di connessioni ad ampio raggio può spiegare le difficoltà dei pazienti autistici nel riconoscimento delle emozioni e nella comunicazione non verbale.
Il risvolto della medaglia tuttavia comprende un elevato livello di percezione dei dettagli, con capacità sensoriali molto fini, alle volte superiori alla media, proprio in virtù dell’iperconnettività locale, ovvero a corto raggio (diversi studi in vitro e in vivo dimostrano una correlazione con mutazioni di specifici geni come SHANK2[1] o il pathway di mTOR[2]). Questi isolotti di abilità superiori ai neurotipici si rilevano spesso in alcune condizioni particolari, come nella sindrome di savant, ovvero la presenza, all’interno di un quadro di disabilità intellettiva, di straordinarie capacità in un settore specifico[3]. Risultano invece di ben più comune riscontro le abilità di discriminazione dei dettagli tramite diversi canali sensoriali, in particolare quello uditivo. E’ infatti noto come la discriminazione tonale (capacità di distinguere l’altezza di un suono) sia migliore nei pazienti autistici rispetto alla popolazione generale a parità di età ed in assenza di un’educazione musicale[4]–[5]. E’ appunto in ambito musicale che si rileva una maggiore incidenza del cosiddetto orecchio assoluto (absolute pitch o perfect pitch) tra individui con tratti autistici o francamente all’interno dello spettro.
Ma cosa definiamo esattamente con “orecchio assoluto”?
Quando parliamo di “absolute pitch” (AP) ci riferiamo alla capacità di discriminare un tono specifico in assenza di un altro tono di riferimento. Per tono intendiamo una nota musicale prodotta da uno strumento o comunque la frequenza precisa di un suono più o meno complesso (il tintinnio di una pentola, una sedia trascinata sul pavimento, un vocalizzo umano). Nella maggior parte degli individui l’altezza dei suoni viene discriminata mettendo a confronto più toni distinti e cogliendo le differenze tra di essi; questa capacità viene definita orecchio relativo (relative pitch RP) ed è condivisa dalla maggior parte degli individui poiché consente di distinguere le inflessioni della voce umana come anche un profilo melodico di un brano musicale (è carente in persone che hanno dei rari deficit neurologici a carico dell’emisfero non dominante, condizione detta amusia).
Come “misuriamo” la realtà tramite gli stimoli esterni?
I nostri sensi e la nostra mente seguono una legge universale, ovvero funzionano meglio in senso logaritmico. Una macchia di inchiostro nero su un foglio bianco apparirà di colore intenso, ma faremo fatica a distinguere l’intensità del colore nero se la stessa macchia si trovasse ad esempio su un ripiano grigio. Stesso discorso per una voce flebile che risuona alle nostre orecchie in una stanza da letto silenziosa: la medesima voce risulterebbe indistinguibile all’interno di un ristorante affollato. La quantità di stimolo può essere la stessa, ma viene apprezzata solo in relazione al contesto e all’intensità degli altri stimoli affini, quindi non tanto in senso assoluto, bensì relativo (si parla di legge di Weber-Fechner). Si tratta di un principio a cui si adatta il nostro intero apparato psichico anche nelle situazioni quotidiane, nello stimare le distanze o il prezzo dei prodotti (uno sconto di 5€ sarebbe vantaggioso su una spesa di 20€, ma sarebbe una presa in giro a fronte di una spesa di 2000€).
La prevalenza di AP nella popolazione generale risulta solo dello 0,01% (si pone tra il 5% e l’11% nell’autismo). Si pensa che nei primi anni di vita la discriminazione tonale segua appunto un modello “assoluto” in un gran numero di individui e solo successivamente avvenga una modifica di traiettoria verso un funzionamento relativo (switching da AP a RP). Questo in virtù presumibilmente di ragioni evolutive: non è una funzione essenziale e il sistema nervoso centrale può farne a meno, sviluppando altri tipi di abilità associative ad esempio. Forse proprio a causa dell’eccesso di connettività a corto raggio tale switching avviene con più fatica negli individui con tratti ASD.
Il fenomeno dell’AP richiede non solo una probabile predisposizione genetica (vi sono evidenze di segregazione familiare[6]), ma ovviamente anche una esposizione a training musicale in età precoce. Le frequenze sonore sono comunemente organizzate secondo le notazioni musicali (Do, Re, Mi…) che forniscono una sorta di “etichetta nominale” in assenza della quale non è possibile fissare in memoria determinati suoni (così come ad un bambino si insegna a denominare i colori). Si pensa dunque che individui, seppur predisposti, ma non esposti a training musicale o comunque ad un sistema per “categorizzare” gli stimoli sonori, perdano tali capacità nel corso del neurosviluppo. Si noti infatti che l’incidenza di AP è maggiore nelle popolazioni esposte a lingue tonali, come il cinese mandarino, in cui la differente altezza di pronuncia di alcune sillabe stravolge il significato della parola stessa: trattandosi di una forma di “training” linguistico-musicale precoce il fatto non ci meraviglia più di tanto.
Come si traduce tutto questo nell’autismo?
Per pazienti con skills musicali o peculiarità quali l’AP gli interventi terapeutici che coinvolgono la musica possono sembrare un passo in avanti quasi “obbligato”. Tuttavia le esperienze di musicoterapia nell’autismo portano spesso a risultati controversi, per via della difficile standardizzazione degli interventi e all’adattamento alle diverse condizioni all’interno di uno spettro ampio. Le attuali linee guida sull’autismo non annoverano la musicoterapia tra le raccomandazioni terapeutiche per carenza di benefici “evidence based” (pochi studi in analisi, metodologie disomogenee), mettendo al primo posto senza dubbio l’approccio ABA (Applied Behaviour Analysis). Tuttavia tra gli obiettivi comunemente raggiunti si notano il miglioramento della comunicazione sociale e della qualità di vita generale con evidenze circa un aumento della functional brain connectivity (connettività funzionale)[7]. Diversi trials clinici inoltre dimostrano, tramite interventi di musicoterapia, un miglioramento della comunicazione non verbale, dell’attenzione congiunta e del contatto oculare in misura maggiore rispetto ad interventi di gioco strutturato[8]. Ciò non sostituisce l’ABA certamente, ma in base alle peculiarità e predisposizioni dell’individuo l’approccio musicale è un elemento che viene incontro.
Il neurosviluppo è un evento fortemente dinamico e dove si palesa un ostacolo vengono messe in atto nuove strategie per aggirarlo: se un bambino ha un deficit nel riconoscimento delle emozioni tramite la visione di un volto, o fatica a verbalizzare il proprio stato d’animo, è necessario usare “vie alternative” per raggiungere l’obiettivo. L’attenzione per il dettaglio a discapito del concetto generale (cosiddetto “deficit della coerenza centrale”) è una valida spiegazione teorica riguardo gli interessi assorbenti o appunto la persistenza di skills settoriali come l’AP. Questo può costituire l’aggancio corretto per costruire un intervento abilitante, ovvero la generalizzazione di un interesse ristretto ad un ambito più ampio, una valida “via alternativa”. Non perdiamo di vista l’obiettivo: ottenere il benessere dell’individuo, non uno sviluppo “conforme” alla norma. Invertire il paradigma e rendere un interesse, per quanto ristretto e ripetitivo, “fruttuoso” piuttosto che un motivo di chiusura è un già traguardo ottimale.
Certamente tra musicisti l’AP è una qualità molto ambita, ma in realtà non fondamentale. La bellezza di una performance musicale come anche numerosi aspetti della tecnica non dipendono dall’innata capacità di “etichettare” le componenti sonore (che certamente aiuta), ma anche da una complessa serie di fattori quali la sensibilità, l’interpretazione del brano, il livello espressivo, la scelta di un arrangiamento. E’ vero altresì che la musica è a tutti gli effetti un linguaggio non verbale, pertanto rappresenta un valido stimolo per condurre il soggetto ben oltre i limiti della propria condizione: passaggio da musica come interesse ristretto a stimolo sociale, cancello aperto verso un reame emotivo e comunicativo inesplorato[9].
Jonathan Calsolaro e Luigi Mazzone
UOSD Neuropsichiatria Infantile, Policlinico Tor Vergata, Roma
[1] SHANK2 mutations associated with Autism Spectrum Disorder cause hyperconnectivity of human neurons https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6475597/
[2] mTOR-related synaptic pathology causes autism spectrum disorder-associated functional hyperconnectivity https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC8526836/
[3] Veridical mapping in the development of exceptional autistic abilities – PubMed (nih.gov)
[4] Pitch discrimination and melodic memory in children with autism spectrum disorders https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/23150888/
[5] Enhanced pure-tone pitch discrimination among persons with autism but not Asperger syndrome https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20433857/
[6] Familial segregation of Absolute Pitch https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1287535/
[7] Music improves social communication and auditory-motor connectivity in children with autism https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6199253/
[8] The effects of improvisional music therapy on joint attention behaviors in autistic children: a randomized controlled study https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/18592368/
[9] What if sharing music as a language is the key to meeting halfway? https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/34821355/