Buco Nero

Quando temiamo l’abuso su un figlio disabile

Qualche tempo fa, su Repubblica, è apparso un allarmante articolo su un insegnante di sostegno che pare abbia abusato sessualmente di uno studente disabile. Il fatto in realtà è accaduto nel 2019, ma è rimasto taciuto fino ad ora, per via delle indagini.

In una giornata artica (il termometro segnava meno trentaquattro), ho postato su Facebook il titolo dell’articolo e la mia indignazione: “Preferisco stare al freddo glaciale che portare mio figlio in Italia”. Certo, sono cose che capitano in tutto il mondo, infatti sono convinta che sia capitato anche a Luca.

Ci eravamo appena trasferiti a Cambridge da Brooklyn, cosa non semplice perché ho dovuto organizzare tutta la nuova vita di Luca (scuola, sostegno a casa e via dicendo) mentre ogni due ore allattavo mia figlia Emma. Ma, alla fine ce l’abbiamo fatta. Da subito io e mio marito avevamo dei sospetti sul guidatore del piccolo pulmino che veniva a prendere e portava a casa Luca, l’unico viaggiatore: tornava sempre mezz’ora o un’ora più tardi del dovuto. Diceva che c’era traffico, ma Google Maps ci diceva tutta un’altra cosa. In più, Luca tornava a casa sempre molto agitato. Dopo un paio di settimane ha cominciato a piangere a dirotto e a urlare Penis! Shhh! Quiet”, come a dire che qualcuno gli ha insegnato la parola penis (che non conosceva) e gli diceva di stare zitto. Tra l’altro nessuno ha mai detto a Luca di stare zitto, visto che le sue abilità linguistiche sono a dir poco rudimentali. Apriti cielo, ovviamente. Con una telefonata ho fatto licenziare il guidatore e ho richiesto un’altra persona sul pulmino, ho licenziato il terapeuta che veniva a casa il pomeriggio che per insegnare a Luca ad andare in bagno da solo, lo teneva chiuso in bagno, con lui, senza pantaloni o mutande. Tutti e due via subito dalla vita di Luca. Poi ho richiesto un incontro con i capi massimi della scuola e ho letteralmente minacciato tutti dicendo: “Diffondo una cosa del genere e la scuola chiude in trenta secondi”. Mi avevano però convinto che a scuola non poteva essere successo nulla, perché gli studenti non verbali avevano sempre accanto due insegnanti, proprio per questo tipo di situazioni. Da allora, il pulmino di Luca ha un guidatore, un assistente e un altro ragazzo.

Quindi, leggere una notizia così mi impressiona particolarmente. E so bene che può succedere dappertutto. Nell’incazzatura ho detto che non porterò mai mio figlio in Italia. I commenti sono stati celeri e non sempre pertinenti: chi mi ha detto che è inutile fare la morale all’Italia quando gli americani vanno in giro con le armi. Due discorsi completamente diversi: sarebbe come dire che a Boston fa freddo, ma a Bruxelles si mangiano le crepes a colazione. Ho tentato di spiegare che, malgrado purtroppo io sappia bene che queste cose capitano dappertutto, è anche vero che in Italia i servizi per le persone disabili sono ignobili, dunque rimango convinta che Luca non verrà mai a vivere in Italia. Un’insegnante di sostegno mi ha detto di aver seguito corsi universitari specifici per diventare insegnante di sostegno, poi mi ha chiesto di come funziona qui e se ho mai dovuto pagare. Le ho spiegato che funziona benissimo: diritto a scuole private per persone disabili a bassissimo funzionamento che non possono avere il sostegno che serve loro e non riescono ad convivere con il rumore di venti ragazzini neuro tipici, ma hanno bisogno di un luogo creato apposta per loro. In media, costano circa centomila dollari all’anno. Ho sempre sentito parlare molto bene i genitori con figli disabili sulle scuole pubbliche, gli insegnanti di sostegno non seguono corsi in più all’università, ma intraprendono ben due anni di Master più certificazioni su ABA e altre terapie per persone autistiche, altrimenti non vengono proprio assunti. A casa, Luca è stato seguito da tre terapeute da quando aveva 4 mesi fino a quando ne ha compiuto 21. E no, non abbiamo mai pagato una lira. Il sistema non è certamente perfetto, ma sono certa che se dovessi chiedere a una mamma italiana come funziona lì, sarebbe una storia ben diversa.

Dunque, no: non porterò mai Luca a vivere in Italia, e non solo perché le notizie di ragazzi disabili maltrattati e abusati sono talmente frequenti da far notizia in sedicesima pagina, con una colonnina di articolo a pié di pagina. Certamente possiamo avere dibattiti sulla natura violenta e armata degli americani, ma quando si tratta di persone come mio figlio immagino di saperne più io di chi non ha mai passato una notte con uno come lui.

PS: dopo trent’anni d’America, probabilmente so molto di più sul dibattito armi, violenza e altro. Ma non c’entra.

MARINA VIOLA

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http://pensierieparola.blogspot.com
Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche voi.

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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