Buco Nero

Il giudizio sociale del nostro soffrire

Quando la collettività si pone di fronte a forme di elaborazione “attive” di una sofferenza, il giudizio è sempre implacabile. Non si tollera l’uscita dai canoni tradizionali dell’afflizione che impongono riserbo, silenzio, annientamento.

Nemmeno nell’epoca della cultura digitale, in cui ognuno avrebbe pieno diritto di costruire liberamente una propria epica individuale, è ammessa la scelta di strumenti personalizzati di elaborazione del proprio lutto. Guai a uscire dallo stereotipo della tragedia più classica, con la vedova inconsolabile, il padre annichilito dal dolore, i figli che non si daranno mai pace.

Il Canonico napoletano Carlo Celano (1617-1693) descrive in una sua cronaca quello che la regola sociale del cordoglio, al suo tempo, imponeva a una vedova. L’idea fondamentale era che la donna dovesse essere punita; veniva innanzitutto affumicata bruciando paglia umida di modo che restasse completamente annerita negli abiti e nel volto. Ogni altra donna che entrava nella casa per la veglia funebre, le strappava una ciocca di capelli e la buttava sul cadavere del morto. Le ultime arrivate, che la trovavano pressoché calva, la graffiavano fino a portarle via pezzi di pelle da porre sul marito morto. Per svolgere questa operazione di scarnificazione si erano precedentemente affilate le unghie sui manici delle zappe. Nel caso di morte violenta in più la donna doveva ostentare gli abiti insanguinati della vittima, invocando i figli a vendicare il padre. Subiva lo stesso trattamento, però distesa con le chiome sciolte accanto al cadavere dell’ucciso.

Tre secoli e mezzo dopo la perfetta elaborazione collettiva di un lutto è ancora condizionata dalla memoria recondita di un’ancestrale giustificazione antropologica, che era alla base di quel barbarico rituale. Ogni condivisione pubblica del cordoglio continua a essere influenzata dalla necessità di una dimensione “punitiva” del lutto. Non è intimamente tollerabile altra risposta, se non quella rituale dell’annichilimento e mortificazione, come se fosse ancora considerata una colpa il sopravvivere alla perdita di una persona cara.

Il perbenismo bigotto dei primi anni del dopoguerra era naturalmente infarcito di questo giustizialismo per omessa ostentazione di sofferenza. Si consegnavano al furor di popolo dei rotocalchi i vip, soprattutto donne, che si ricostruivano vite spensierate dopo essere state icone di sofferenza. Si ricordi tra tutte Jacqueline Kennedy, poi Onassis, a cui stava colpevolmente stretto il ruolo forzato di vedova del “Presidente buono”.

Nel tempo attuale la persona che subisce un lutto continua a essere considerata degna solo se “scomunicata”, dovrebbe rinunciare a uscire di casa, a frequentare persone, a cercare conforto in attività che non rientrino nelle categorie proprie del mortificarsi. Questo accade ancora, anche se apparentemente non si pretende più il vestire di nero per un lungo periodo come avveniva fino al recente passato. Si pretende però il voto di castità verso il “piacere” che per tutti è oggi giudicato irrinunciabile, quello della ricerca di una “presunta” fama.

Su questo principio sballato c’è stato chi ha avuto da ridire giorni fa sulle dichiarazioni dei genitori di Gaia e Camilla le due ragazzine uccise da un suv in corsa a Corso Francia, solo perché chiedevano maggior rigore sull’omicidio stradale. Ilaria Cucchi ancora sembra che debba giustificarsi per la battaglia civile in cui si è impegnata per avere giustizia, per il fratello ucciso a botte da “tutori dell’ordine”. Indietro nel tempo non si può dimenticare chi aggrottava le ciglia di fronte all’impegno di Tina, vedova di Antonio Montinaro capo scorta di Giovanni Falcone, che ha elaborato la sua tragedia promuovendo un’associazione di vittime della mafia, facendosi attivista della legalità in giro per l’Italia. Come non si possono non ricordare gli attacchi che ha dovuto sopportare per anni Beppino Englaro, durante il suo calvario per conquistare una fine dignitosa per la figlia Eluana.   

Questo è accaduto e accade ancora mentre ognuno si arrovella nel suo piccolo universo social a compiere gesti memorabili per ottenere gradimento, non ci si ferma di fronte all’oggettivamente ridicolo, imbarazzante, osceno. Tutto è giustificato perché di noi si parli e tutto può essere strumentalizzabile per diventare oggetto di narrazione.

 “Ho preso il muro fratellì!”  È il meme che consegnò alla gloria il rapper iper tatuato Algero Corretini che, dopo essersi schiantato, sorridente e soddisfatto mostrava sui social la Jaguar che aveva distrutto. La catena infinita delle Challenge, spesso letali, su TikTok e Instagram dimostrano che, per entrare nel circolo degli eletti con un esercito di seguaci, vale la pena di soffocarsi, lanciarsi dalle finestre, ingurgitare bevande pestifere, tagliarsi, bruciarsi.

In questo clima di sacrificio artefatto, finalizzato alla gloria, paradossalmente è aumentata l’attenzione quasi invidiosa verso chi conquista visibilità per ragioni indipendenti dalla sua volontà di essere esempio di dolore.

Ecco quindi che non si perdona alla sorella di Giulia Cecchettin di aver trasformato in una battaglia di civiltà la sua sofferenza, tanto meno si perdona al padre Gino di essere andato in televisione con la medesima intenzione di trasformare in esempio il suo lutto. Addirittura provoca commenti scandalizzati il fatto che si sia procurato un agente, che possa gestire i suoi passaggi televisivi, quasi lo avessero visto ballare sui tavoli a Capodanno, cosa che in un mondo libero dal pregiudizio avrebbe ben diritto di fare se a lui giovasse per stare meglio. 

La vita ti ha punito? Nasconditi! Se ti metti in mostra lo fai per un interesse personale o per strumentalizzare “politicamente” la tua disgrazia. Questo continua a essere il non detto che sottilmente serpeggia tra i nuovi difensori della sobrietà nell’esporsi come virtù degli eroi. Gli stessi fustigatori dell’apparire per cui è assolutamente “normale” che non esista più un parlamentare, persino peone, che non tartassi quotidianamente il suo social media manager a scegliere il suo scatto più fotogenico per chiosare la sua quotidiana social story, in cui nella maggior parte dei casi non ha nulla di eccelso da dire e che quasi nessuno guarderà.

LA STAMPA del 5 gennaio 2024

Gianluca Nicoletti

Giornalista, scrittore e voce della radio nazionale italiana. E' presidente della "Fondazione Cervelli Ribelll" attraverso cui realizza progetti legati alla neuro divergenza. E' padre di Tommy, giovane artista autistico su cui ha scritto 3 libri e realizzato due film.

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