Stigma e domande insulse
Quando si è genitori di cervelli ribelli, si passa la vita a combattere i vari stigmi e le varie domande cretine da parte di chi, nella nostra società, non sa gestire nessuna diversità. Il primo, enorme stigma si riscontra nel senso di vergogna che si ha quando il figlio tanto desiderato non è affatto come lo si avrebbe voluto. Come se in fondo fosse colpa dei genitori, come se avessero infangato il nome della famiglia. Tanto è vero che spesso i parenti non sanno neanche cosa dire. Chi invece decide di commentare, lo fa goffamente e involontariamente in modo offensivo. Ricordo anni fa, quando Luca era piccolo, un mio prozio lo incontrò per la prima volta durante una nostra vacanza a Bordighera, il paese in cui mia madre era nata. Lo osservò con una faccia che sembrava fosse morto qualcuno e poi disse, quasi con le lacrime agli occhi: “È così bello…è proprio un peccato che sia malato”. Un’altra volta, quando scoprimmo che Luca aveva anche la sindrome di Down, una persona mi disse: “Dai, tanto non si vede…”, come a dire che potevo anche non dire nulla. L’importante era l’apparenza.
I genitori, già scioccati da quello che hanno appena iniziato a capire dopo la diagnosi, cercano sempre scuse per atteggiamenti particolari, insegnano ai propri figli, fin da piccoli, che certe cose non si possono fare in pubblico, come lo stimming, le carezze sui capelli, i versi un po’ strani. Ecco il grande secondo stigma con cui avere a che fare. Ricordo una terapeuta di mio figlio che insisteva che Luca non alzasse le braccia muovendo le mani tipo jazz hand perché la gente poi si spaventa e comunque non è un comportamento appropriato. Lo ricordo perché feci una litigata furiosa con lei: ma davvero deve essere mio figlio a cambiare, invece che l’atteggiamento degli altri? Si spaventano? Educhiamoli a non spaventarsi. Sono sempre stata convinta che la forza di Luca stia proprio nella sua libertà di fare quello che si sente di fare, di uscire dai ranghi delle regole sociali senza neanche accorgersene. Se Luca è autistico, si comporterà da tale. Non è certo un problema suo se la gente non sa come reagire.
Poi, quando i figli diventano più grandi e quindi più complessi da aiutare, inizia lo stigma della famiglia sfigata e si cominciano a sentire le frasi tipo: “Io non ce la farei mai se fossi in te”, come se noi fossimo così più speciali di loro, e accettassimo con facilità il nostro quotidiano. È come dire: “Fai una vita di merda con quel figlio. Non ti aiuto perché non so gestirlo, ma la sera prego per te”. Qualcuno è arrivato anche a chiedermi se le persone autistiche muoiono prima di quelle “normali”, come a dire, dai, poi quando muore potrai divertirti…
Quando poi il figlio diventano adulto, lo stigma fa un giro di 360 gradi, specialmente quando si decide di trasferirlo in una casa-famiglia o in un luogo fatto per lui. La frase “Che vita di merda” si trasforma in: “Come fai a lasciarlo?”, come a dire che si è diventati egoisti, che è innaturale che una mamma, dopo ventisei anni, abbia voglia di farsi i fatti suoi. Ma non solo: è come pensare che tanto ci saremo sempre noi genitori ad occuparci di loro. Poi, quando non ci saremo più, loro cosa fanno? Tutto d’un tratto, si trovano soli a 40 anni, senza la minima esperienza di indipendenza dai genitori. È stata un’amica italiana che mi disse che ho il cuore di pietra, che lei non lo farebbe mai e poi mai. Lei non sa, evidentemente, cosa questa decisione significa per il figlio e per i genitori. Trovo invece molto altruistico nei confronti di Luca prepararlo per il dopo. La parte terribile di questa decisione sta nell’assoluta certezza della nostra morte. Non che non sapessimo che moriremo pure noi, ma decidere di mandarlo nella sua casa-famiglia ha significato per me accettare di avvicinarmi sempre più in fretta alla partenza da questa terra.
Poi, allora, spero non ci siano più domande cretine, stigmi da superare. A meno che dio, o chi per lui, sia autistico…
Marina Viola
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Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche voi.