Lobotomia tra mito e realtà
Cercarono di convincermi che era l’unica speranza per Rose, altrimenti avrebbe passato il resto dei suoi giorni come una pazza furiosa in una cella imbottita. Ora credo che la lobotomia per Rose fu un grave errore […] Non avevamo idea del danno permanente che ora sappiamo provocare alla personalità. Durante quei giorni, alcuni psichiatri guardavano all’operazione come ad una meravigliosa nuova scoperta che avrebbe controllato la follia […] Rose non è diversa oggi dalle prime fasi della sua malattia, ma qualcuno deve sempre stare con lei per prendersene cura. (Edwina Dakin Williams “Remember me to Tom” G. P. Putnam’s Sons, NY, 1963)
Rose, sorella del drammaturgo Tennessee Williams, fu una delle prime pazienti ad essere sottoposta ad una nuova procedura neurochirurgica, chiamata leucotomia o lobotomia frontale, ideata e sviluppata da Egas Moniz (1874 – 1955), grazie alla quale ottenne il Nobel per la Medicina nel 1949.
Un anno è passato da quando ho inaugurato una procedura chirurgica per il trattamento di certe psicosi. Guidato da dati fisiologici e clinici, ho suggerito che interrompendo alcune delle connessioni tra il lobo prefrontale ed altre parti del cervello, alcune modificazioni potrebbero essere provocate nei processi mentali di individui psicotici. I primi risultati sono stati incoraggianti e li ho pubblicati in una monografia. Osservazioni successive hanno dimostrato che stiamo seguendo una procedura che è di beneficio per i malati mentali. (Egas Moniz in American Journal of Psychiatry 1937)
I primi articoli sui quotidiani riguardo la lobotomia erano brevi resoconti di presentazioni ai congressi dal tono positivo e con descrizioni spesso fuorvianti. Waldemar Kaempffert in un articolo sul Saturday Evening Post, intitolato “Capovolgere la mente”, scrisse che lo psicochirurgo…taglia esattamente all’angolo giusto nel piano giusto. Più avanti, nello stesso articolo, creò un’analogia trapsicochirurgo e orologiaio, indicando ai lettori quanto l’operazione fosse di estrema precisione.
Alcuni degli articoli dell’epoca erano un curioso mix di obiettività e irrazionalità. Per esempio, mentre in molti di essi venivano evidenziate le percentuali dei risultati, così come riportati nelle riviste scientifiche, alcuni giornalisti usavano un linguaggio estremo per drammatizzare i risultati.Nel 1945 Harry Dannecker scrisse un articolo su Coronet Magazine dal titolo “La psicochirurgia mi ha guarito” nel quale si descrisse come un relitto umano, miracolosamente riportato alla vita normale dal bisturi di un chirurgo.
In aggiunta al sensazionalismo sugli effetti positivi della lobotomia, gli articoli scritti in questo periodo raramente trattavano i rischi coinvolti nell’intervento. In alcuni ne venivano deliberatamente minimizzati gli effetti collaterali. Waldemar Kaempffert, sul Saturday Evening Postdel 24 maggio 1941, raccontò di tre decessi su 200 casi aggiungendo però che curiosamente, tutti e tre erano tormentati dal desiderio di morire. Altri articoli erano meno entusiastici circa i cambiamenti di personalità, ma ancora sostenevano che questi sintomi post-operatori erano da preferire alla precedente condizione mentale. Alcuni di questi cambiamenti sarebbero indesiderati se l’alternativa non fosse molto peggiore (New York Times 11 gennaio 1942).
Nel 1959 Kurt Goldstein scrisse un articolo per Scientific American nel quale mise in guardia contro l’esteso uso della lobotomia. È di massima importanza verificare se le affermazioni degli ottimisti sostenitori dell’operazione corrispondano ai fatti. Dopo aver presentato alcuni suoi dati sulla perdita delle abilità astratte, egli espresse una posizione moderata affermando: è certamente un’esagerazione riferirsi a tutti i pazienti lobotomizzati come a vegetali umani, come un autore ha fatto. Tuttavia i risultati sono seri abbastanza per preoccuparci.
Le principali critiche che venivano mosse erano che la lobotomia veniva utilizzata indiscriminatamente, che non c’erano sufficienti prove scientifiche a supporto di un uso diffuso e che la procedura aiutava di più chi si prendeva cura dei malati che i pazienti.
Gli articoli che esprimevano le opinioni dei critici nella comunità scientifica si concentravano solitamente sul potenziale di cambiamenti post-operatori nell’intelligenza e nella personalità.Martin Gumpert nell’articolo su Nation citò le parole di un medico che definì la lobotomia come “stupro dell’anima”. Un articolo molto critico di William L. Laurence su New York Times era intitolato “Lobotomia vietata in Unione Sovietica perché crudele”. In esso era scritto che la procedura era contraria ai principi di umanità e che attraverso la lobotomia una persona malata di mente si trasformava in un idiota.
Nonostante le critiche, il numero di lobotomie continuò a crescere e la tecnica ad avere consensi. Nel 1945 il neurologo Walter Freeman introdusse una variazione alla tecnica con la lobotomia transorbitale che, a suo dire, poteva essere eseguita anche dagli psichiatri.
Il nuovo intervento conquistò popolarità in contesti istituzionali come strumento per sistemare pazienti difficili e svuotare gli ospedali. L’operazione ha reso i malati mentali più facili da curare.Un’operazione al cervello così semplice che se ne possono fare 15 in un’ora e mezza e potrebbe aiutare a liberare i reparti dei nostri ospedali psichiatrici (Science News Letter 1950, July 8). Il New York Times pubblicò un articolo dal titolo “La chirurgia con il rompighiaccio è tentata in massa” nel quale descriveva come nel giro di poche settimane Walter Freeman avesse eseguito 228 lobotomie. Era infatti impegnato in una sorta di crociata, viaggiando in tutto il paese, allo scopo diraggiungere gli ospedali per eseguire le operazioni e insegnare la sua tecnica.
Nel 1954 l’introduzione della clorpromazina fornì un’alternativa non invasiva al trattamento della malattia mentale e divenne la nuova speranza. La lobotomia venne abbandonata quasi completamente e inserita nella trama di capolavori del cinema.
Gabriella La Rovere