I reietti del Palazzo d’amianto
Lo scrissi mesi per La Stampa s gennaio, quando ci fu l’esodo fuori dalle palle del cavallo. Lo ripubblico qui perché rileggendolo mi sono ricordato che quell’amianto ha avvelenato un po’ anche me.

Che il palazzo Rai di Viale Mazzini fosse imbottito di amianto me lo dissero dal primo anno che ci
misi piede, nel lontano 1983. Ho lavorato in quell’azienda fino al 2004, passando spesso per la
Direzione Generale. Ricordo che si raccomandava di non appendere quadri alle pareti, per evitare
di bucarle. Chiunque abbia lavorato a Mazzini ha sempre saputo di quel pericolo nascosto, non so
dire perché tutti rimuovevamo il rischio di passare gran parte della giornata dentro una scatola
avvelenata.
Quando cambiai lavoro per anni ho evitato di passare davanti al palazzo del numero 14 di Viale
Mazzini, pur risiedendo nella stessa via. Pensarlo oggi nella desolazione di un mausoleo evacuato
forse mi ricorda le antiche “vanitas”, nature morte che servivano a rammentare la caducità di ogni
fama terrena.
Presto si spegnerà anche l’ultimo barlume di vita in quello scheletro spolpato della carne dei suoi
inquilini, avverrà immagino quando copriranno con un’impalcatura protettiva il cavallo,
perennemente morente, di Francesco Messina. Sarà finalmente seppellito, ponendo fine alla sua
agonia che durava ininterrotta dal 1966.
Nel mio epitaffio partirei proprio dal giardinetto di palmizi, dove il cavallo affonda i suoi bronzei
attributi virili. Non ho certezza della diceria per cui qualcuno avrebbe chiesto all’artista di ridurre
per decenza le dimensioni del membro equino, posso però testimoniare di una tradizione orale
per la quale, una palpata a quell’area intangibile, sarebbe stato propizia per chi fosse in procinto a
fare una proposta ai piani alti.
Per chiunque fosse entrato dall’ingresso su Viale Mazzini era tassativo scegliere la porta giusta, tra
le due a disposizione. Mi pare fosse quella di destra, l’altra era destinata unicamente a chi usciva.
Circolava la certezza assoluta che chi invertisse questo ordine avrebbe attirato su di sé una
maledizione perenne.
Entrare da una qualunque di quelle porte ha esposto comunque, per anni, ogni ospite o postulante
all’amianto friabile che, fino al 2012, si nascondeva sotto il soffitto artistico in metallo di Gino
Marotta, orgoglio dell’atrio che portava alla biblioteca e alla Sala degli Arazzi.
I dipendenti di medio e basso rango invece entravano dall’ingresso su via Pasubio, dove c’era pure
la parete per la timbratura del cartellino. Le prime linee e il top management venivano scodellati
dalle auto blu più vicini possibile al marciapiede, quasi a ridosso delle cancellate, perché potessero
evitare chi si appostava in loro attesa, per chiedere attenzione, interventi, appuntamenti ecc.
Quando invece era ricevuto a corte un personaggio dell’empireo degli artisti e conduttori, o
persona illustre che volesse evitare il contatto con chiunque non fosse al suo livello, l’auto blu
entrava direttamente da una cancellata carrabile, all’angolo tra via Pasubio e Viale Mazzini, per
mollare il suo prezioso carico davanti a un ascensore riservato, che saliva diretto al piano mega
direttoriale.
È importante conoscere la destinazione indicibile dei singoli piani; sette come i peccati capitali,
più l’attico. Di questi solo due erano fondamentali all’esistere dell’intera struttura: Il settimo piano
della Direzione Generale, Consiglio di Amministrazione e massime posizioni di comando; il piano
successivo che ospitava il bar e la mensa. Ricordo che a un lato ci fosse pure un piccolo ufficio
solitario per silurati, che affacciava sul nulla.
Gli eletti non si vedevano mai all’ultimo piano. Al settimo veniva servito tutto in ufficio, fu infatti
un evento senza precedenti quando, nella stagione dei “professori” del 93, Claudio Demattè e
Gianni Locatelli un giorno, per la prima volta, salirono a mensa. Mangiarono agli stessi tavoli dei
dipendenti attoniti. Nessun presidente e direttore generale aveva osato farlo prima di loro.
Il settimo piano era completamente rivestito di moquette color tortora, dal pavimento alle pareti.
Questo rendeva ogni passaggio felpato e silenzioso. Gli impiegati e qualche quadro usavano
scendere dalla mensa al piano inferiore, usando le scale e non l’ascensore, che riprendevano al
sesto piano. Una manovra giustificata dalla vertigine di un giro per i corridoi del potere. Signore in
golfino con il portafogli sottobraccio, signori con lo spezzato marroncino, si avventuravano per
tutto il perimetro di quel sancta sanctorum, nella speranza di incontrare un pezzo grossissimo e
magari riuscire a salutarlo. Chissà? Un giorno forse si sarebbe ricordato di loro.
I piani sottostanti erano tutti uguali, indifferenti, standard. Le pareti mobili segnavano ascese e
tracolli, assegnando spazi e mobilio o togliendone. Attribuendo gioie e afflizioni, esattamente
come accadde al triste Serge Reggiani nella “Terrazza” di Scola.
Di quei “Sergio Stiller” ne conobbi tanti, colti e bistrattati, lasciati marinare nell’amianto, senza il
corrispettivo della popolarità e del potere di attribuirne, solo perché incapaci di leggere le liturgie
non scritte di quel camposanto di vetro e acciaio. (pubblica su La Stampa 30 gennaio 2025)