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Il reato di disabilicidio

Su “Vita” è stato pubblicato un intervento di Veronica Rossi sul tema del figlicidio suicidio da parte dei genitori di persone disabili. L’autrice individua una zona d’obra laddove si tende a “giustificare” tale gesto in nome di un disagio, gesto d’amore ecc. Non tenendo conto della raealtà del disabile che comunque sembrerebbe considerato una persona di rango inferiore, che in nome di un disagio può anche essere soppressa. Viene proposta l’individuazione di un nuovo reato “Il disabilicidio” che restituisca il vero ruolo di vittima a disabile ucciso. Per quanto riguarda il femminicidio la condanna è unanime, per il disabilicidio c’è in generale un clima di giustificazione per l’omicida.

E’ un tema su cui mi sono spesso esposto, non credo che trovare un nuovo nome cambi la sostanza delle cose, non credo nemmeno che la confessione che sia un pensiero non raro nei caregiver corrisponda a dimenticarsi che di omicidio si tratti senza se e senza ma.

Nell’ultimo commento sulla madre omicida e suicida ho ribadito il concetto, chiedendo aiuto perchè qeusto pensiero non abbia ragione di nascere. Questo non significa e non significherà mai che io creda che uccidere un figlio disabile possa essere considerato un delitto di minore gravità solo perchè l’angoscia del dopo di noi ci attanaglia la ragione.

La posizione espressa nell’articolo merita approfondimento e dibattito. Non è una posizione ideologica ma deve essere uno stimolo di riflessione.

Una madre uccide la figlia disabile e si uccide


Si chiama disabilicidio: non lasciamo più spazio alla retorica dell’estremo gesto d’amore

Da giorni, dopo l’uccisione di una donna autistica da parte della madre, tra le persone con disabilità sta crescendo una riflessione netta sullo storytelling che accompagna questi drammatici episodi di cronaca. «La fatica di chi cura suscita molta empatia, tanto da diventare quasi una giustificazione per il gesto estremo dell’uccisione del proprio caro. Ma è un omicidio, non un gesto d’amore. Ci serve una parola nuova: disabilicidio», dice Marta Migliosi, donna disabile, sociologa, attivista

di Veronica Rossi

«Quando ti ammazzano, se sei disabile è un po’ meno grave. Se poi a ucciderti sono le mani del tuo caregiver, devi essere anche un po’ grato». Marta Migliosi è una donna disabile, sociologa, attivista. In questi giorni ha analizzato la narrazione dell’omicidio avvenuto a Corleone, Palermo, dove una donna 78enne ha ucciso la figlia autistica di 47, ed è arrivata a una conclusione: la vittima viene quasi eclissata dalla madre, come se il dramma di chi cura fosse tanto grande da giustificare quasi un’azione così estrema.

In Dire, fare, baciare, la newsletter di Sara De Carli per gli abbonati di VITA dedicata ai temi dell’educazione e della famiglia, già il 9 dicembre avevamo dato conto della riflessione fatta da Valentina Tomirotti, giornalista esperta di diversity, sulla sua pagina Linkedin: « Non è una tragedia familiare. È omicidio. Il contesto non cancella il reato. Inserire la disabilità nel titolo in questo modo non informa: giustifica, edulcora, sposta la responsabilità. Trasforma la vittima in un peso e l’assassino in una figura “schiacciata dalle circostanze”. È una distorsione gravissima, che alimenta un immaginario pericoloso: quello per cui alcune vite valgono meno. Il carico assistenziale, il lutto, la fatica non sono attenuanti di un delitto».

Dov’è Giuseppina, la persona uccisa, in tutto questo racconto? Quali erano i suoi progetti, i suoi sogni, le sue speranze? Perché Giuseppina scompare, nascosta dal peso che i suoi bisogni comportavano per qualcun altro? Queste sono le domande che Migliosi e tante altre persone con disabilità si fanno.

Qual è la sua visione rispetto ai delitti che coinvolgono le persone con disabilità?

Da quello che ho notato, la visione dominante si articola su due poli. Nel primo, la persona che è stata uccisa sparisce, tanto che a volte non viene detto nemmeno il suo nome. Della madre viene detto tutto, è descritta come una donna di buon carattere, che andava a messa. Giuseppina non viene mai raccontata, non si sa cosa facesse, cosa le piacesse. L’omicidio viene dipinto come un ennesimo gesto d’amore. E così sembra quasi che la morte di Giuseppina possa essere una effettiva soluzione al problema. Giustificata perché il gesto è compiuto dalla madre caregiver che “l’amava”, ed è percepito così come gesto di pietà per la disabilità.

Il secondo polo della narrazione qual è?

Viene raccontato che le risposte dello Stato, come il “dopo di noi”, le strutture, i centri diurni, i servizi… non sono sufficienti. Anche qui però, quando una persona passa dalla tutela della famiglia a quella dello Stato, che deve assolverne la cura come la madre, la vittima viene ugualmente dimenticata. Il punto è che i servizi non devono essere sostituti della famiglia, ma devono diventare una fonte di liberazione dallo stato di oppressione per la persona con disabilità costruendo sostegni che siano nell’intera comunità, la persona deve essere messa nella condizione di scegliere sul proprio futuro e la propria vita. In più c’è una mancanza di riconoscimento del fatto che Giuseppina sia stata uccisa in quanto persona con disabilità e sia stato quindi un “disabilicidio”.

Serve una parola nuova? Perché questa sottolineatura è importante?

Lo paragono al femminicidio: è importante usare le parole giuste. Non perché le persone con disabilità siano una categoria speciale, ma perché con questa parola si indicherebbe chiaramente il motivo dell’uccisione. La narrazione più comune, quando accadono fatti di questo genere, mette in evidenza le motivazioni del caregiver, che pensa di avere il controllo totale sulla vita di un altro e “lo fa per amore”. Su Radio uno, c’è stata un’intera puntata dedicata a questo fatto di cronaca e il presidente di un’associazione nazionale che si occupa di disabilità, intervistato, ha detto chiaramente di aver avuto anche lui il pensiero di uccidere i propri figli, che sono entrambi autistici. È assurdo che una persona possa dichiarare in diretta una cosa del genere. Come avremmo reagito se qualcuno avesse raccontato: «Ho pensato di uccidere mia moglie, perché si è comportata male»? Giustamente saremmo scesi in piazza. Abbiamo vissuto un’epoca in cui era accettato che una donna venisse uccisa perché aveva tradito, ora i tempi sono cambiati e non lo si accetta più. Chi ha una disabilità, invece, sembra sia ancora considerato una persona di serie b. Abbiamo la sensazione che la nostra vita valga meno rispetto alle persone senza disabilità ed è completamente accettato socialmente, infatti non scandalizza nessuno dichiarazioni di quel tipo.  

È però vero che ci sono situazioni in cui una persona ha un altissimo bisogno di assistenza, che viene soddisfatto solo dal caregiver familiare. E che questo familiare sente una forte angoscia all’avvicinarsi del momento in cui non potrà più prendersi cura del proprio caro. Che soluzioni ci sono?

Le uniche soluzioni che esistono, al momento, che siano durature e “sicure nel tempo”, sono le strutture, che però sono segreganti e istituzionalizzanti. Come dicevo, la persona con disabilità passa dalla tutela della famiglia alla tutela dello Stato. Dobbiamo ribaltare la prospettiva sul “dopo di noi”: non bisogna aspettare il momento dell’emergenza, servono interventi adesso, nel presente, che diano alla persona disabile il potere di accedere ad una piena cittadinanza, su base di uguaglianza con i cittadini senza disabilità. Serve che tutta la comunità abbia i sostegni giusti e che il potere sia in mano alla persona, che deve avere la possibilità di decidere cosa fare della propria esistenza.


Gianluca Nicoletti

Giornalista, scrittore e voce della radio nazionale italiana. E' presidente della "Fondazione Cervelli Ribelll" attraverso cui realizza progetti legati alla neuro divergenza. E' padre di Tommy, giovane artista autistico su cui ha scritto 3 libri e realizzato due film.

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