"Io Daniel Blake": un film per chi lotta contro l'ottusa burocrazia
L’ultimo film di Ken Loach è da non perdere. Ve lo consigliamo qui, perché è qui, su queste pagine, che ogni giorni riceviamo, raccogliamo e raccontiamo storie che tanto hanno in comune con quella di Daniel Blake, il protagonista della pellicola, vincitrice (meritatamente, opinione personale) della Palma d’Oro a Cannes. L’ho vista ieri sera e ce l’ho ancora addosso: mentre la trama, nel suo lento procedere, mi portava via con sé, avevo in mente tante storie che qui facciamo diventare notizie: storie di ottusa burocrazia, di istituzioni che sembrano non solo miopi, ma proprio cieche di fronte ai bisogni e le fatiche di chi ha una disabilità, una malattia o una qualsiasi “fragilità” in casa. E completamente sorde al grido di chi non ce la fa più e chiede aiuto. E a quell’aiuto ha pure diritto.
Il film racconta una di queste battaglie e somiglia ha una parabola: Daniel è un carpentiere – un po’ evangelico anche lui – che dopo un attacco di cuore deve stare a riposo. Chiede l’indennità di malattia, ma inspiegabilmente gli viene negata: per medici e chirurghi è inabile al lavoro, ma non la pensa così la “professionista della sanità” che lo esamina, sottoponendolo sgarbatamente a un assurdo interrogatorio. Lei lo valuta abile e, un po’ per questo un po’ per dispetto un po’ per mero esercizio del potere, gli nega l’indennità.
Non somiglia, questa, a tante storie di famiglie continuamente costrette a dimostrare la disabilità e le difficoltà del proprio figlio, solo per avere ciò che spetta loro di diritto, sia esso il sostegno a scuola, o l’assistenza, o il contrassegno per parcheggiare vicino casa?
Nel film di Loach c’è l’accanimento della burocrazia, che applica le procedure e trasforma gli uomini in macchine. E c’è l’ostinazione di chi non ci sta ad essere umiliato e trasformato in un potenziale “furbetto”. C’è molto altro, nel film di Loach: perché Daniel è un uomo fino in fondo, che pure in mezzo all’arroganza e alla freddezza di moduli da compilare on-line, conserva la propria umanità, con la compassione e l’empatia che lo rendono “connesso” veramente, anche se digitalmente sconnesso e analfabeta.
Daniel Blake incarna ciò che ogni uomo può e deve vantare di fronte all’impero della burocrazia digitalizzata: la sua arma è la capacità di intercettare il bisogno e di interessarsene. Il contrario di ciò che fa l’ufficio burocratico con i suoi ufficiali, incapaci di sentire la disperazione di chi hanno di fronte e ancor più incapaci di farsene carico. Incapaci di riconoscere i diritti laddove ci sono. E di farli valere.
L’uomo contro la burocrazia: ma chi vince questa battaglia?
Battaglia estenuante anche per lo spettatore, che sente sulla pelle la rabbia e lo sdegno, ma pure la commozione per una madre che quasi muore di fame, per sfamare i propri figli, mentre la burocrazia la mette alla porta per un minuto di ritardo.
Vince Daniel Blake, che quella donna riesce a sollevarla subito prima che tocchi il fondo. Vince Daniel Blake, che non permette agli uomini grigi di umiliarlo e rivendica a gran voce il proprio essere uomo. “Io, Daniel Blake”, è la dichiarazione che serve a non trasformarsi in un numero di protocollo stampato su un modulo. Piuttosto rinuncia ai suoi diritti, ma non perde la sua dignità.
Vince Daniel Blake, perché solo lui riesce a catturare lo sguardo di Dylan, il figlio di Kate che tanto somiglia ai nostri #teppautistici: perché scappa in mezzo alla strada e non sta fermo mai, perché non risponde alle domande, perché non si gira quando viene chiamato, perché fa rimbalzare mille volte una palla in fondo alla rampa delle scale. Daniel, con la sua umanità, semplice ma fiera e profonda, fa le mosse giuste, ottiene la sua attenzione e conquista perfino il suo affetto. Mentre la burocrazia resta lì, con la sua efficienza che è tutta apparenza, a tenere in ordine la fila e a far rispettare gli orari, a sfornare moduli e prescrizioni, a creare attese su attese, a complicare le vite già complicate. Per poi scandalizzarsi e terrorizzarsi quando Daniel, alla fine, nel bagno di un ufficio, in attesa del verdetto finale, darà prova di aver sempre avuto ragione…
Vedete il film, se potete, perché tanti di voi ci si riconosceranno. E troveranno forse in esso l’incoraggiamento e la forza per non soccombere di fronte alle prove, spesso estenuanti, a cui li sottopongono quegli uffici che, come osserva Daniel, “hanno in meno le nostre vite”.