La storia di P. e della sua famiglia. Che lascia Roma, in cerca di un "dopo"
P. è un #teppautistico “fantasma”, di quelli che non si vedono e che per qualcuno neanche esistono: perché ha concluso la scuola superiore, ha lasciato già da tempo la condizione “infantile” e si appresta, insomma, ad essere un vero adulto. I genitori si stanno dannando, per capire come indirizzarlo verso il suo futuro, come aprirgli almeno le poche possibilità che non gli sono precluse: come dargli il meglio, insomma. Che è ciò che ogni genitore vuole assicur are a suo figlio. Ma la ricerca di queste possibilità si è trasformata in una vera e propria Odissea, che ci ha voluto raccontare, capitolo dopo capitolo…
Al termine del percorso nelle scuole superiori, che non sono servite affatto ad aumentare le sue competenze, ma che sono state per il genitore palestra continua di scontri con parte del corpo docente (e qui si aprirebbe un capitolo tristissimo), avevamo bisogno di capire cosa fare per P. , che per ovvi motivi non può starsene a casa senza far nulla. Cosa fare per valorizzare le competenze, non perdere quelle poche acquisite, consentirgli di incontrare altre persone, oltre ai genitori e a quei pochi che, data la patologia, ha potuto conoscere. L’ inclusione con i cosiddetti ‘normodotati’, che la scuola con vuota demagogia predica, non si è affatto realizzata: quale adolescente ha argomenti di scambio con un ragazzo che non condivide lo stesso mondo o gli stessi mezzi comunicativi, che non comprende il simbolico, l’astratto, la mente altrui?
Per fortuna, un’eccezione positiva c’è stata:
Solo il gruppo scout della parrocchia si è dimostrato disponibile ad offrire amicizia al ragazzo: e nelle mattinate di molte domeniche P. ha potuto trovare con loro momenti di aggregazione.
Come impiegare però il resto del tempo? Cosa offrire a P, ora che la scuola era finita?
Bisognava scegliere fra un Centro socio-assistenziale del Comune e un centro socio-sanitario della Asl. L’uno o l’altro? Ma è davvero possibile scegliere? Sembrerebbe di si; ma non è così. La domanda è altissima, mentre l’offerta è davvero poca: “Non ci sono posti disponibili” “Vediamo fra qualche mese” “Ma si è messo in lista di attesa?”.
Di centri non ce ne sono a sufficienza
Allora si fa un primo passo: i genitori di P. chiedono alla Asl l’autorizzazione per l’inserimento in un diurno socio-sanitario. Con quella in mano, cercano quale, fra quelli convenzionati, possa essere il centro più adatto. E così continua il racconto del papà:
La ricerca si restringe assai: nessuno tratta la sindrome con le particolarità che essa richiede. Adeguiamoci dunque, ci diciamo. La richiesta di inserimento, inviata via fax, da alcuni centri non riceve neanche risposta. Altri due centri invitano i genitori ad un incontro con l’equipe per un’ intervista, ma per differenti ragioni l’inserimento non può avvenire. Dopo molti tentativi, otteniamo un terzo centro si dice disponibile ad accogliere P.: dopo l’estate, a ottobre.
Un problema sembra dunque risolto, ma subito se ne pone un altro: il centro è lontano dall’abitazione, occorre che la Asl autorizzi il trasporto con pulmino: un’impresa non particolarmente difficile, visto che già altre persone disabili vengono accompagnate dal pulmino della Asl dalla stessa periferia verso il centro della città. Invece no, la cosa è complicata, perché la Asl non ha ancora rinnovato la convenzione con la cooperativa che effettua il trasporto. E quindi P. dovrà attendere questo rinnovo. Il Centro pure attende, sebbene nell’attesa non percepisca il pagamento della retta. L’inserimento ad ottobre non avviene, né a novembre, né a dicembre, né a gennaio. Poi, il Centro ha atteso abbastanza: pur di non lasciare P. a casa, la famiglia si accorda per pagare di tasca propria il trasporto, e da febbraio si comincia. Il mese successivo la Asl rinnova finalmente la convenzione.
Si tira un sospiro di sollievo, ma per poco:
il nuovo problema si chiama QUALITA’
Pur con tutta la buona volontà, pur con tutta la simpatia possibile, pur con tutte le migliori attenzioni, il Centro non ha l’adeguatezza necessaria al trattamento dell’autistico. Poiché il futuro non può essere assistenziale, o solo assistenziale; poiché P. ha bisogno (e con lui le persone con autismo) di un progetto di vita; poiché il lavoro in una struttura quale una cooperativa sociale di tipo B può contribuire a dare un diverso senso alla sua vita; poiché assieme al lavoro si potrà progettare un “dopo di noi” su misura…
Di qui, la decisione finale, la più sofferta, la più coraggiosa forse. Ma certo la più difficile e complicata:
Si è scelto, prima del “troppo tardi”, un Centro di eccellenza fuori Regione, visto che anche la Asl. ha dovuto riconoscere, dopo adeguata indagine conoscitiva, che nel Lazio non esisteva un Centro secondo quanto previsto dalla Legge 134/2015. A Roma, P. e la sua famiglia hanno lasciato tanto: una grande casa, l’amicizia degli scout, una buona assistenza domiciliare, la simpatia di chi lo ha potuto conoscere..
Perché allora andarsene, sradicarsi? In cerca di cosa?
La legge 134 ha giustamente considerato con maggiore larghezza di vedute le necessità, per una persona autistica, di più serie prospettive per la prosecuzione della vita sua, e di quella dei genitori! La legge 134 ritiene che la preparazione al lavoro, al fine di un possibile inserimento lavorativo, sia una strada da percorrere necessariamente, sia per dare al soggetto una dignità derivante da una occupazione (anche se minima e protetta), sia per favorire una qualche sua inclusione in un modello di vita che non rimanga ristretto alle cure dei familiari (che prima o poi, come tutti, se ne andranno lasciandolo solo).
Ebbene, la cruda realtà è questa:
A Roma e nel Lazio non vi è nulla di tutto ciò: nulla che sia organizzato secondo i migliori criteri possibili che la legge stessa specifica. Anche il migliore dei centri, come quello che P. precedentemente frequentava, se non prevede uno sbocco per il “Dopo di noi”, rimane un bel ‘parcheggio’, o una ‘prigione dorata’. P. non godrebbe di alcun beneficio, se non per un periodo limitato. Ecco quello che penso: seppure nella nostra Costituzione non sia previsto (come in quella americana) riferimento alcuno alla ricerca della felicità, credo sia dovere del genitore fare in modo che il figlio/a possa goderne. E se nella mia città non la trovo, la cercherò altrove! Anche se mi costa ricominciare tutto daccapo! E costa alla famiglia rimettersi ancora una volta in discussione. E anche se, di fatto, mi sento in qualche modo emigrante, vittima di una specie di “ostracismo” delle istituzioni laziali…