Gli autistici "prodigiosi" fanno bene all'evoluzione (ne siamo felici ma esistono anche gli altri…)
Riportiamo un articolo pubblicato su Le Scienze che potrà sicuramente fare piacere leggere a tutti noi. Sono riflessioni sul vantaggio sociale nell’inclusione di persone con neurodiversità. Sia chiaro che lo spunto nasce da un altro articolo di Time&Mind dove spiega più nel dettaglio di quale “fetta” di noi autistici si stia parlando. Il pezzo infatti parla di “autismo senza compromissione intellettuale” sostenendo che non sia necessariamente uno svantaggio. Nel dettaglio l’articolo originale lo distingue infatti dalle “Condizioni dello spettro autistico associati a insufficienza intellettuale, che sono spesso concepiti come disturbi e che richiedono un intenso sostegno sociale.” Questa spiegazione solo per non fare di ogni erba un fascio e non continuare sempre e solo a identificare gli autistici con i geni matematici o i personaggi prodigiosi della storia. I nostri “teppautistici” forse non passeranno alla storia, ma a noi piacerebbe che fosse loro comunque consentito di trascorrere una vita il più possibile felice e tra le persone con cui loro amano stare…Esiste un mucchio di gente che anche senza essere autistica a basso funzionamento alla fine non è che aiuti poi la società a fare passi evolutivi da gigante!!! (GN)
L’ autismo e il successo evolutivo umanoNell’evoluzione della cognizione sociale umana, la teoria della mente, cioè la capacità di comprendere il pensiero degli altri, è stata un elemento determinante. Tuttavia, anche i soggetti autistici, che hanno una teoria della mente molto diversa dalla norma, trovarono una nicchia in cui costruire una reputazione sociale positiva, grazie a doti non comuni che portarono a una specializzazione dei compiti all’interno dei gruppi sociali Nei contesti sociali dei primati, e in particolare in quelli umani, comprendere i pensieri e i sentimenti degli altri – cioè possedere una teoria della mente – costituisce un notevole vantaggio adattativo. È quindi molto probabile che questa capacità abbia rappresentato una delle forze determinanti dell’evoluzione della cognizione sociale umana. Quest’ultima tuttavia è un fenomeno complesso, e si può quindi ipotizzare che i soggetti con un deficit di teoria della mente, a partire da un certo punto in poi dell’evoluzione, non furono esclusi dalla società ma anzi accuditi e protetti, e anche apprezzati per altre doti e competenze, utili alla sopravvivenza del gruppo sociale stesso. È il caso dei disturbi dello spettro autistico, analizzati da un punto di vista antropologico da Penny Spikins, Barry Wright e Derek Hodgson della NewYork University, in un articolo apparso sulla rivista “Time & Mind”. L’argomentazione degli autori prende le mosse da alcuni ritrovamenti archeologici che documentano come nelle società umane la pressione selettiva non abbia sempre favorito risposte comportamentali immediate e di valore sociale a breve termine: la protezione di soggetti vulnerabili era infatti comune. Una delle svolte fondamentali fu l’emergere dell’etica collaborativa, cioè il diffondersi di comportamenti prosociali, come la condivisione del cibo o la partecipazione alla cura della prole, rintracciabili già 1,5 milioni di anni fa. Questi comportamenti furono sempre più apprezzati, tanto che gli individui che li mettevano in pratica acquisivano una reputazione sociale positiva. Solo in un’epoca molto più recente, che gli studiosi collocano a 100.000 anni fa, si svilupparono le dinamiche sociali complesse di protezione dei soggetti più deboli che sono state osservate nelle popolazioni moderne di cacciatori-raccoglitori. In questo quadro teorico complessivo gli autori hanno cercato d’inserire l’autismo, che secondo gli studi di genetica ha una lunga storia evolutiva.
Il caso è interessante, perché i soggetti autistici hanno, in termini clinici, un deficit della comunicazione verbale e non verbale, e un’interazione sociale compromessa. In una prospettiva antropologica, argomentano gli autori, andrebbero considerati come soggetti con una socialità diversa dalla norma: sviluppano infatti una teoria della mente differente, basata sull’uso di regole e di logica, che comunque funziona. In altri termini, questi soggetti non sono in grado di comprendere situazioni emotivamente e socialmente complesse, ma hanno enormi potenzialità in altri ambiti, sia sociali sia tecnici, che possono aiutarli a ottenere una reputazione sociale positiva. Molte persone affette da autismo, inoltre, hanno eccezionali doti di memoria, di percezione visiva, olfattiva e gustativa, oltre a una maggiore comprensione del comportamento animale. “La nostra tesi è che la diversità, la variabilità di caratteristiche tra le persone, era probabilmente più significativaper il successo evolutivo umano delle caratteristiche di una singola persona”, ha sottolineato Spikins. “Fu proprio la diversità, infatti, a garantire il successo alle comunità umane, aprendo la strada alla specializzazione dei ruoli”. Come esempio, gli autori citano uno studio etnografico sugli abitanti della Sberia pubblicato nel 2005 dall’antropologo Piers Vitebsky, in cui è descritto il caso di un anziano mandriano di renne in grado di ricordare ricordare parentele, storia individuale e carattere di ciascuno dei sui 2600 animali. Questa conoscenza dettagliata, con tutta probabilità, dava un contributo significativo alla gestione della mandria e alla sua sopravvivenza. L’anziano era più a suo agio in compagnia delle renne che degli uomini, ma nonostante ciò era una persona rispettata, ed ebbe una moglie, figli e nipoti. Va comunque sottolineato che le conclusioni dello studio di Spikins e colleghi sono molto speculative, anche se argomentate, poiché manca la possibilità di documentare il ruolo dei soggetti autistici nelle società preistoriche sulla base dei ritrovamenti paleoantropologici. Tuttavia, alcuni studiosi studiosi rintracciano alcuni elementi grafici tipici dei soggetti autistici con notevoli doti artistiche nell’arte rupestre del Paleolitico superiore, va da 40.000 a 10.000 anni fa circa.
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