Pensare Ribelle

"Mamma ho capito: io sono ASPIE!" Storia di consapevolezza e solitudine.

 G.ha 16 anni, è un adolescente complicato, come ce ne sono tanti, ma è stato anche un bambino difficile. Gioioso, solare, ma spesso con alcuni aspetti “strani”. Ha passato fasi di crisi profonda, non usuali per i suoi coetanei, nelle quali si è autopunito, provocandosi delle ferite ed ha confessato di volersi uccidere. La sua mamma R. ha cercato di capire in ogni momento come stargli accanto e a chi chiedere aiuto. Si è giudicata, condannata e ora in via di assoluzione ha intrapreso una strada tortuosa, ma definita: quella della madre di un ragazzo asperger. Una diagnosi alla quale insieme al figlio sono arrivati attraverso internet e un neuropsichiatra più attento, dopo sedute di logopedia, terapia comportamentale, diversi psicologi e un tentato ricovero come soggetto psicotico,. Spaventata, ma risoluta ha voluto raccontarci la sua storia e chiederci un consiglio per andare avanti non solo grazie all’intuito.

“Quando G. mi ha detto di essere ASPIE, io ho pensato si trattasse di qualcosa legato allo spionaggio e ad un’altra sua mania del momento. Mi aveva appena rivelato di sentirsi un alieno dentro di sè. Poi ho letto e capito: tutti i segnali confermavano quello che in tanti anni nessuno aveva capito: G.era un asperger.” R. è  una donna colta, abita in Brianza dove  da qualche anno ha creato una sua società anche per essere più libera per seguire i suoi  figli: G. di 16 anni e N. di due e mezzo. E’ divorziata ed ha creato un’altra famiglia con un nuovo compagno. Nella sua vita ha macinato idee e strada, con un punto fermo l’amore per il suo G., introverso, scontroso, geniale, sospeso. Un figlio da proteggere come tutti i figli, ma con qualche necessità in più e lei se ne è accorta presto. “Alla scuola materna non faceva i disegni come gli altri bambini, era molto vivace, e le maestre mi dissero che forse era meglio farlo rimanere un anno in più prima delle elementari, ma mio marito non voleva un figlio diverso, per cui lo facemmo cominciare in corso. Subito ci indirizzarono dal logopedista perchè non pronunciava la R, ma io mi preoccupavo di più perchè non ricordava nessun nome dei suoi compagni e non aveva amici del cuore. Anche se solare, sembrava essere un po’ anaffettivo, come se mai nessuna cosa o fatto potesse scalfirlo fino in fondo.”  R. intuisce che il suo bambino ha delle difficoltà e non se ne vergogna anzi chiede alle maestre che però non raccolgono le sue perplessità. Le medie sono il periodo peggiore. “Parte di slancio, ma dopo un anno si ferma. Non ha voglia di studiare e sembra non andare avanti. Mi consigliano un esperto di terapia comportamentale che però mi rilascia solo una diagnosi di grave disgrafia. Nonostante questo le insegnanti continuano a minacciarlo “se scrivi così male ti bocciamo.” Mi raccontano di piccoli episodi di bullismo di cui sarebbe stato vittima, ma non mostrano una grande sensibilità nell’aiutarlo. Alla fine riesce ad essere promosso con la media del 6 come gli altri suoi compagni cosiddetti difficili. “

La terza media è cruciale per G: arriva un fratellino e la famiglia cambia casa, si trasferiscono nella stessa strada, a distanza solo di un civico, nell’appartamento del nuovo compagno della madre.“Eravamo sempre stati in simbiosi io e lui. Il fratellino lo ha vissuto con gelosia mai confessata, e poi nella nuova casa ha dovuto sottostare alle regole del mio nuovo compagno. Deve essergli sembrato veramente troppo.” Con il padre nel frattempo G interrompe i rapporti ed inizia un atteggiamento ostile verso il mondo degli adulti. G. vive male la scuola e non si riesce a creare momenti di svago, ma decide che vuole fare il liceo scientifico. Nonostante docenti e preside sconsiglino questa strada, R. vuole dargli fiducia e lo iscrive alla scuola scelta. “Come sempre inizia alla grande, con entusiasmo, si trova anche una fidanzata, molto simile a lui, e il primo anno riesce a prendere solo due materie. L’anno seguente smette però totalmente di studiare, passa le vacanze natalizie chiuso in camera e la situazione degenera. All’istituto specializzato in piscologia adolescenziale cui si era rivolto, G. smette di andare perché dice che non gli serve a nulla. A scuola viene bocciato. Relazioni sociali praticamente nulle: fa fatica anche nella squadra di calcio che è la sua passione.”

Il dramma sfocia quell’estate. “Lo vedo talmente allo sbando che non mi arrabbio per la bocciatura ed anzi decido di ritornare nella vecchia casa per dargli spazio e respiro. Gli dico che quell’estate dovrà cercare di conoscere se stesso e gli propongo delle vacanze diverse che cercassero di coinvolgerlo. Ho pensato ai campi di Libera e alla scuola di vela di Caprera.” L’idea di R. sembra vincente, G. pare contento e motivato, ma quando inizia il secondo campo, si perde di nuovo. “Mi hanno chiamato dopo tre giorni per andarlo a prendere. Scappava e girava impugnando coltelli. Mi hanno proposto di ricoverarlo ed io l’ho messo in lista di attesa per un posto in Neuropsichiatria, dove siamo tornati dopo poco. Pareva stesse meglio e lo avevo mandato alla scuola vela, ma ha avuto un attacco di panico per cui siamo dovuti tornare in ospedale. Ero frastornata, non capivo cosa stesse succedendo: sono state settimane terribili. Ho pensato che forse con un controllo approfondito avrebbero capito cosa avesse. Poi però ho fatto un giro nel reparto e mi sono spaventata. Mi avevano detto che lo avrebbero tenuto perchè sospettavano fosse psicotico e quindi pericoloso per sè e per gli altri.” R. cerca di parlare con morbidezza al figlio, anche se G. è sempre più aggressivo e rabbioso anche con lei: quasi violento a volte nelle sue crisi. Poi una sera la confessione inattesa:

Mamma io sono diverso. Io guardo per ore una crepa e mi chiedo cosa ci sia oltre. Io ho un alieno dentro di me.”

R. non sa più cosa fare, certo non vuole ricoverare il suo ragazzo in quelle stanze nelle quali ha visto un dolore e un malessere a cui non vuole farlo assistere. Non si aspetta che a distanza di poche settimane sia proprio lui a darle una risposta.

“Mamma sono un aspie!”.

“Io non ho capito subito, poi ho letto mi sono documentata e tutto tornava. Siamo andati da un neuropsichiatra specializzato in neuroscienze ed ha confermato i nostri dubbi. Mi chiedo solo come abbiano fatto a non capire, a non aver nemmeno un dubbio tutti coloro a cui mi sono rivolta negli anni. Alle elementari per riuscire a mandarlo a scuola mi ero inventato un sistema di cartelli in cui disegnavo le azioni che doveva fare con vicino gli orari. Per farlo studiare avevo ideato un sistema di ricompense a punti per accedere al premio che voleva. Io con il mio intuito ho sperimentato altre strategie. Maestre, logopedisti, psicologi, medici nessuno che abbia almeno supposto.”

Ed ora? G. sembra convivere meglio con il suo alieno, R. ha avuto modo di sfogare la sua rabbia con l’ospedale quando l’ hanno chiamata e le hanno detto “bhè se ha capito che è asperger a maggior ragione lo deve ricoverare”. Adesso però ha paura: non sa se può accontentarsi dell’intuito di madre grazie al quale è riuscita a far arrivare sano e salvo il suo ragazzo a 16 anni e si sente ancora troppo sola. “Abbiamo  questo neuropsichiatra di riferimento dove G. sta andando ma non con continuità. La quotidianità è difficile, gli errori tanti e l’ambiente circostante spesso giudica senza sapere la fatica e la solitudine.

Vorrei capire cosa devo fare per continuare ad aiutare G. per diventare un adulto sereno e consapevole, su questa strada a cui almeno, finalmente abbiamo dato un nome.”

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