Buco Nero

Essere mamma di un bambino con sindrome di Down


Leggo che a Napoli è nata una bimba con la sindrome di Down, e che la mamma (del papà non si parla) l’ha abbandonata in ospedale. Leggo anche che sette famiglie in attesa di adozione hanno deciso di non scegliere lei, che invece è stata adottata da un uomo single. Lo so che non si può e non si deve giudicare chi sceglie di non avere un figlio con disabilità. D’altronde, se lo avessero chiesto a me, non so cosa avrei fatto. Sia decidere di abortire che invece di accogliere una persona disabile sarebbe stata una decisione difficilissima.

In Svezia c’è stata una vera e propria caccia alle streghe nei confronti della popolazione Down, e la Sanità è riuscita a debellarla grazie a test prenatali e, a mio parere, per colpa di un’ignoranza di fondo, perché partire dal presupposto che una società è migliore senza di loro significa pensare che le persone con la sindrome di Down siano materiale da scartare. Come se non fosse invece colpa della società, e non del cromosoma in più, per la mancanza di integrazione e di sensibilità per il diverso. In Islanda il 100% dei bimbi diagnosticati con la sindrome di Down vengono abortiti. Non ne nasce uno da cinque anni. Anche in Danimarca stanno tentando di eliminare la presenza di persone Down entro i prossimi dieci anni, che, vorrei ricordare ancora una volta, non hanno mai fatto male a nessuno e il cui unico vero problema è l’esagerato affetto nei confronti di tutti. Infatti molti studi confermano che il 99% delle persone Down si dichiarano felici della propria vita, il 97% è fiero di essere Down e il 96%  si piace così.

L’umanità, ormai lo abbiamo capito, è fatta di persone di tutti i tipi: ci sono quelli che hanno una naturale inclinazione al successo e alla velocità di analisi, ci sono quelli che passano inosservati, ci sono quelli che poi da grandi diventano attori, assassini, contabili, stupratori, insegnanti di scuola guida,  ladri, cacciatori e commessi, collezionisti di francobolli, sciatori, antipatici a tutti. Ci sono state guerre per difendere la sacrosanta libertà di vivere in santa pace, anche se si è ebrei, anche si si è neri, anche se si è diversi da come ci voleva la mamma. Il tentativo di abbattere i muri che ci dividono sempre di più gli uni dagli altri sembra a volte una battaglia impossibile da vincere. Poi c’è il discorso dell’educazione alla disabilità. Tra tutto quello che la genetica può, come dire, sbagliare, il fatto di nascere con un cromosoma in più è forse la cosa meno difficile da gestire.

Non è retorica quando si dice che le persone con la sindrome di Down, a differenza dell’autismo per esempio, possono avere una vita che di solito è concessa solo a noi normali: se la società non chiude loro le porte in faccia, possono andare a scuola, lavorare, sposarsi, essere indipendenti al cento percento, avere amici e sentirsi appagati. Siamo noi che limitiamo il loro successo, malgrado il desiderio più grande di ogni persona Down sia proprio quello di poter farsi una vita tranquilla senza discriminazioni, senza dita puntate, senza sogghigni dietro le spalle. Vi ricordate quando una coppia omosessuale non poteva neanche tenersi per mano che veniva subito derisa? Vi ricordate quando una persona di colore diverso dal nostro veniva fatto schiavo? Sono minoranze, quelle, che hanno potuto organizzarsi, dire BASTA e insegnarci a convivere con loro. Ecco, uno dei principali problemi per la comunità disabile è l’incapacità, nella grande parte dei casi, di creare un movimento importante e di promuovere una sensibilizzazione. Per cui è normale che si dia la colpa a loro per essere nati così, e sembra normale che una cucciola neonata venga abbandonata in ospedale, e che sette famiglie che desiderano un figlio decidano di rifiutarla perché diversa da loro. È normale che si dica: “Vorrei vedere te”.

Non posso fare a meno di pensare alla mamma di questa bimba, che ha sentito talmente forte la vergogna e la paura di crescere la sua bimba che ha pensato che facesse meno male abbandonarla dopo averla tenuta in grembo per nove mesi. Penso alla cameretta che aveva preparato, all’anticipazione della gioia di averla tra le braccia e piango un pianto dirotto per lei. E non posso fare a meno di pensare all’amore che non avrà da parte della sua bimba, che invece l’avrebbe riempita di baci, di abbracci e di un tipo di soddisfazione che si prova soltanto quando la bimba raggiungerà obiettivi che la società pensa non possa mai toccare. Mando un abbraccio fortissimo a questa mamma e alla sua bimba, che spero riuscirà a capire di essere stata rifiutata non per colpa sua, ma per colpa della profonda ignoranza, che lei dovrà combattere ogni giorno.

Io invece che fortunatamente non ho avuto il privilegio di scegliere che tipo di figlio crescere, vado ad abbracciare il mio fiore all’occhiello, che invece attraversa il mondo con una dignità e una gioia invidiabile, e ringrazio Dio che non legga i giornali italiani. Ci sarebbero troppe cose da spiegargli, lui che crede di essere il re.

Marina Viola

marinaliena

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Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche domande….

 

 

 

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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