C’è una parte dello sterminio nazista di cui si parla e si sa meno delle altre.
Succede perché molte delle vittime furono ignare di quanto stava accadendo. Anche i familiari, spesso, non seppero, ricevendo solo un vago certificato di morti.
I pochi sopravvissuti raramente furono in grado di raccontare.
Eppure fu l’inizio della follia, prima ancora che la guerra esplodesse. Fu il banco di prova per superare linee sino ad allora invalicabili.
Il programma Aktion T4 iniziò alla fine del 1938 e si protrasse sin dopo la fine della Guerra, portando all’uccisione di oltre 200.000 persone affette da disabilità, menomazioni, ritardi, problemi cognitivi. Ma le vittime potrebbero essere molte di più, alcune stime fanno salire la stima intorno alle 300.000.
Diverse migliaia di questi morti, circa 5.000, furono bambini, anche piccolissimi: dovevano essere segnalati al Reich i bimbi inferiori di 3 anni con sindrome di Down, malformazioni ad arti, testa e colonna.
I loro genitori venivano spinti a inviare i figli in appositi centro dove offrire loro cure migliori. Le famiglie, spesso convinte dai medici di famiglia, accettavano e firmavano il foglio di affidamento dei figli con il miraggio di curarli.
Firmavano, di fatto, la morte dei loro figli. Possiamo immaginare niente di più terribile?
Nel 1939 il programma salì velocemente di livello e dai bambini affetti da malattie gravissime si passò all’eliminazione di adulti affetti da ritardi mentali o disabilità tali da dover essere stabilmente ospedalizzati. Questi esseri umani erano considerati un costo inutile per lo stato, un costo che poteva essere risparmiato.
Eliminandoli.
Erano “Asumerzen”, vite indegne di essere vissute, come dal titolo del bellissimo libro e spettacolo di Marco Paolini.
L’uccisione, in alcuni centri, avveniva con la dieta E, una dieta priva di qualsiasi nutriente che faceva morire lentamente e di stenti i “pazienti” su un arco di circa tre mesi.
Ma altrove si usavano cocktail di farmaci e, poi, il gas che sarà adottato anche per i campi di concentramento, permettendo di incentivare rapidamente il numero di eliminazioni.
Sono migliaia le storie perdute di persone ammazzate spesso senza poter neppure capire cosa accadesse. Uomini e donne e bimbi bollati a vario titolo come “malati”, che non hanno lasciato traccia del loro passaggio nel mondo, della loro vita e della loro morte.
Ma Ernst Lossa sì, qualcosa ha lasciato.
Ernst non è neppure affetto da disabilità acclarate: è solo il figlio di una famiglia Jenisch. I Lossa appartengono a un’etnia nomade, disegnano e vendono madonne di città in città.
Ernst ha due sorelle, ma, quando gli zingari finiscono sotto la lente d’ingrandimento del nazismo, il piccolo viene sottratto alla patria potestà e finisce in orfanatrofio, a soli 4 anni.
La madre muore di malattia di lì a poco, il padre verrà deportato in campo di concentramento da cui non tornerà.
Ernst non li vede più, non rientra in famiglia, viene cresciuto nell’orfanotrofio.
Ma, diventando grande, inizia a creare problemi.
È insofferente alla disciplina, non studia, è aggressivo, dice parolacce. Lo mandano in una “casa di rieducazione”. Anche se gli stessi educatori che lo analizzano dicono che è forte, di intelligenza vivace e senza evidenti ritardi, riscontrano in lui un atteggiamento troppo ribelle, ingestibile. E poi Lossa ruba, spesso, e questo tratto, insieme alla sua “indole falsa”, viene visto come uno specchio perfetto della sua indole zingara e del fatto che le sue turbe hanno origine genetica.
Ernst è monitorato, valutato e, infine, considerato irrecuperabile.
«Possiede capacità medie, non si lava ed è disordinato, gli manca quasi totalmente il senso dell’igiene sia per quanto riguarda il corpo sia per gli abiti; la sua ossessione a rubare sembra patologica, porta via, senza riflettere e senza un motivo, tutto quello che vede. Sue caratteristiche tipiche sono la chiusura e la falsità. In un interrogatorio sono stati osservati soprattutto il suo portamento non eretto e il suo sguardo sempre in agguato. A lui non manca la buona volontà. Dopo ogni guaio lui promette di migliorare, ma la sua buona volontà è troppo debole nei confronti della forza delle sue inclinazioni negative. Tramite il racconto di cose oscene, mette in pericolo i ragazzi del suo gruppo. Il lavoro manuale riesce a svolgerlo bene solo se viene osservato, appena ci si gira lo abbandona ed inizia a fare delle scemenze. Questo giovane senza controllo è un pericolo per tutti e per questo deve essere rinchiuso. Non è possibile sopportarlo in un normale istituto, perché tutto l’ordinato lavoro di educazione di un intero gruppo soffre della presenza di un ragazzo anormale e asociale, per il quale non ci sono possibilità di un successo educativo».
Una serie di relazioni di questo tenore, a soli 13 anni, conduce Lossa verso l’ospedalizzazione psichiatrica e, quindi, lo fa diventare un Ausmerzen, una vita indegna, da cancellare.
Prima Ernst finisce all’ospedale di Kaufbeuren, dove continua a mostrarsi vivace, continua a rubare, continua a “creare problemi” e a non piegarsi alla disciplina.
E così viene spedito alla filiale di Kaufbeuren, la “clinica della morte” di Irsee. Queste due strutture sono entrambe sottoposte alla supervisione del Dottor Valentin Faulthauser, che sarà responsabile della morte di oltre 1.200 persone.
A Irsee, di solito, non si sopravvive più di 9 settimane.
Se non muori di consunzione per la dieta E, ti fanno una puntura.
Nell’“ospedale” di Irsee il ragazzino riesce, in qualche modo, a guadagnarsi la simpatia degli infermieri, perché è sveglio, aiuta coi lavori che gli vengono assegnati, scherza, fa confusione.
Ruba ancora, Ernst, ma ruba le mele che regala agli altri malati sottoposti alla dieta della morte e questo non va bene, fa incazzare i medici nazisti. Solo che alcuni infermieri sono contenti della sua compagnia, probabilmente lo proteggono perché in quel luogo orrendo mette allegria o collabora nei lavori più faticosi.
Così, invece di essere soppresso subito, Lossa rimane lì in ospedale rimane vivo per un anno e mezzo. Vede morire decine di persone ma, a differenza di altri sventurati compagni che non possono rendersi conto della situazione, Ernst capisce bene cosa sta accadendo in quel posto.
Sa che i dottori ammazzano le persone, in particolare con le punture, quando i pazienti non vogliono saperne di morire.
Per questo, un giorno, Lossa regala a un infermiere con cui ha stretto amicizia la foto all’inizio di questo articolo.
Dietro scrive: “in memoria”.
– Perché in memoria? – gli chiede l’infermiere.
– Perché tanto io non vivo a lungo, qui. Spero di morire quando sei di turno tu, così mi metti bene nella bara.
L’infermiere non vuole sopprimere Ernst, ma il ragazzo sta diventando un problema, anche perché parla apertamente di ciò che accade a Irsee.
È probabile che a risolvere la questione ci pensi una donna fedelissima della direzione, l’infermiera Pauline Kneissler, chiamata apposta dal reparto femminile.
Succede di notte, aspettando che gli “amici” del ragazzo non ci siano, per evitare problemi.
La Kneissler si fa aiutare da un collega, perché Ernst sa che sono le punture la via per morire, in quel posto, e non vuole che gliele facciano. Ed è forte.
Non è chiaro se lo debbano colpire al capo per potergli iniettare la “medicina” o se lo convincano dicendo che si tratta di un vaccino contro il tifo.
La puntura contiene in un letale mix di morfina e scopolamina che uccide Ernst nel pomeriggio del giorno seguente.
“Aveva il viso blu e la bava alla bocca” racconterà l’infermiere cui aveva regalato la foto al processo di Norimberga.
L’infermiera Pauline Kneissler, per “alleviare le sofferenze” dei malati ucciderà un numero presumibile di 500 persone.
Anche lei sarà solo un’esecutrice di ordini, una burocrate dell’orrore, come molti dei suoi colleghi.
Sarebbe forse più tollerabile se dovessimo immaginare mostri alieni, a compiere simili atrocità, ma non è stato così. Sono stati uomini e donne qualunque che hanno ucciso le persone che avrebbero dovuto curare.
Ernst è una delle povere creature inghiottite dal mostro le cui bocche furono tante persone più o meno comuni, ugualmente incapaci di opporsi all’orrore.
Ma la sua storia, insieme a questa foto, è riuscita a sopravvivere: è una delle poche arrivate al processo contro i medici nazisti e il folle progetto di eliminazione degli “inutili”.
A Ernst Lossa sono dedicati libri, film, strade e il museo del giocattolo di Napoli.
Di lui si parla nel libro e nello spettacolo “Ausmerzen” di Marco Paolini e nel libro “Nebbia d’Agosto” che ha ispirato l’omonimo film.
Ricordare il nome di Ernst e il suo passaggio nel mondo, oggi, è un modo per ricordare quei bambini, quelle donne, quegli uomini, che i burocrati della morte, dall’alto di una presunta sanità, giudicarono “indegne” di vivere.
Esseri umani “malati” uccisi dai cosiddetti “sani”, che finirono per macchiarsi di indegna follia.