Cosa fare

Sono fuggita per 10 giorni da mio figlio autistico…E lui è ancora vivo e vegeto!

L’avevo buttata lì pensando che comunque non sarebbe mai successo: avevo avuto l’idea di andare a fare un road trip (qui si dice così) nel sud degli Stati Uniti, dove né io né mio marito eravamo mai stati. Avrebbe voluto dire lasciare Luca, Sofia, Emma e Fiona, cucciolo di 5 mesi, a casa.

Era esattamente dal 1993 che io e Dan non facevamo un viaggio da soli per più di un fine settimana, e infatti i fine settimana non sono viaggi, ma solo due giorni in cui per lo più si dorme e si cerca disperatamente di recuperare.

L’avevo buttata lì perché la nostra situazione, come quella di tutte le famiglie in cui c’è una persona autistica a basso funzionamento, non prevede assenze, vita di coppia, svaghi. Siamo, o forse ci costringiamo, a essere in qualche modo prigionieri dei nostri figli. Questo, come sempre, porta a chiudersi sempre di più nel proprio mondo balordo. Dopo un po’ passa anche la voglia di uscire, perché trovare una babysitter per un ventunenne alto e con la barba che ascolta esclusivamente Gianna di Rino Gaetano è sempre più difficile da trovare, e comunque ora di sera si è distrutti. Tutti i nostri amici hanno ormai i figli al college, e stanno rivivendo una specie di seconda luna di miele: escono spesso, fanno feste, viaggi. Robe normali, insomma. All’inizio ci invitavano, ma ormai non ce lo dicono neanche più.

Ma siccome sono più testarda dell’autismo, ho provato a organizzare dieci giorni lontano da casa. Ho interpellato alcune delle ex terapiste di Luca a cui lui aveva conquistato il cuore a botte di abbracci e carezze. Mi serviva una persona che lo conoscesse bene e che riuscisse a venire qui la sera, dopo il lavoro, e rimanere fino alla mattina, a preparare Luca per la scuola. Sono, le ex terapiste, ragazze molto care, ma che hanno lavori difficili e che magari la sera vorrebbero andarsene a casa tranquille. Tre di loro hanno detto che non potevano, e il mio progetto sembrava essere svanito sul nascere. Ma poi Ariel, quella più carina e dolce, ha detto che ce l’avrebbe fatta.

Avevo anche bisogno di una persona che aspettasse il pulmino di Luca, che arriva alle tre, che stesse a casa il pomeriggio con lui e la terapista (quindi una persona maggiorenne), qualcuno che si occupasse di Emma, che ha undici anni e anche se intraprendente e matura, ha bisogno di aiuto e di una persona che si occupasse del cane, cinque mesi di labrador esagitato.

Mentre mettevo sulla carta tutte queste esigenze, quasi ridevo: davvero faccio tutto io? E chi sarebbe mai disposto a fare tutto questo? Per non parlare della casa, dei bucati, della spesa, delle mille cose che faccio senza neanche pensarci. Ne parlavo con Sofia, che ha 18 anni e che ha appena finito il primo anno di università, e mi ha detto: “Mamma, ma faccio io! Voi andate non preoccupatevi di niente…”.

Ho passato due giorni a pensare che sicuramente mi stavo dimenticando qualcosa ed ero certa che all’ultimo momento sarebbe saltato tutto e non avremmo potuto andare via. Chi mi credevo di essere, una mamma di una famiglia normale?

Poi è arrivato il giorno della partenza, e io ero ancora sotto shock all’idea che avremmo davvero potuto lasciare tutta la nostra vita complicata e volare via. Continuavo a ripetere a Sofia che tanto avremmo potuto prendere il primo aereo e che saremmo tornati in un a paio d’ore. “Guai a voi! Andate e state tranquilli!”

Il volo da Boston a New Orleans è stato interrotto a Washington perché un passeggero si era sentito male, e siamo rimasti chiusi nell’aereo per tre ore. Il mio istinto era quello di tornare immediatamente a casa: c’è sicuramente qualche dio che mi sta ricordando che le regole in una famiglia come la mia sono diverse: bisogna stare dentro quelle mura, altro che New Orleans! E invece quella sera eravamo in un locale stupendo, ad ascoltare musica dal vivo e a sorseggiare diversi cocktail finora sconosciuti. Abbiamo poi noleggiato una macchina e siamo andati in Mississippi, in Alabama, nella Georgia, nella Carolina del Sud, poi in quella del Nord e infine a Washington, dove abbiamo preso un aereo di ritorno.

Sofia mi telefonava tutti i giorni dicendomi che era tutto sotto controllo. Emma ci telefonava con Facetime la sera, così che io potessi cantare a Luca la sua canzone preferita. Il cane pisciava un po’ in casa, ma roba di normale amministrazione.

Siamo tornati a casa dieci giorni dopo: i letti erano fatti, la spesa e il bucato anche, Luca era vivo e vegeto, Emma felice di vederci anche per i regalini che le abbiamo comprato e Sofia stanca, ma felice per essere riuscita a fare una cosa da grandi. E sì, le ho dato un piccolo stipendio, meritatissimo tra l’altro.

Io mi sono sentita un po’ come se fossi riuscita a fare una pernacchia a questa autismo che sarà anche poetico e tutto, ma che a volte è davvero una rottura di palle.

La cosa più bella del viaggio non sono state le città meravigliose che abbiamo visto o le sbronze che siamo presi o i viaggi nella campagna dell’Alabama. È stata quella sonorissima pernacchia, che spero di rifare presto.

MARINA VIOLA

marinaliena

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http://pensierieparola.blogspot.com
Marina Viola porta il quaranta di scarpe. Vive a Boston e ci fa il diario di quella che pensiamo essere l’ altra parte della luna. Che significa per noi autistici vivere negli Stati Uniti? Potete farle anche domande….

 

Redazione

La redazione di "Per Noi Autistici" è costituita da contributori volontari che a vario titolo hanno competenza e personale esperienza delle tematiche che qui desiderano approfondire.

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