Quell’autistico di Bartleby lo scrivano di Melville
Spesso nella vita capitano situazioni alle quali si da poca importanza, frasi che vengono pronunciate e che scivolano nell’oblio perché in un automatismo quotidiano che, per noi genitori di persone autistiche, è diventata una regola per sopravvivere.
L’altro giorno avevo deciso che sarei andata nel pomeriggio a fare la spesa con Benedetta. Spesso mi trovo ad organizzare queste uscite in modo che la sua giornata abbia delle piccole, sopportabili variazioni all’interno di una routine rassicurante. Come sempre le avevo dato un orario di uscita in cui farsi trovare pronta. Avendola chiamata più volte e non ricevendo risposta, sono entrata nella sua camera e l’ho trovata ancora in pigiama, intenta a seguire uno dei tanti corsi di lingua online.
Non mi ha degnata di uno sguardo, continuandomi a dare le spalle e quando, risentita, le ho chiesto se aveva voglia di uscire «Preferirei di no» è stata la laconica risposta che mi ha acceso un ricordo. A quel punto l’intenzione di partenza è stata rimandata al giorno dopo ed io mi sono immersa nello studio e nella rilettura attenta di un classico della letteratura: Bartleby lo scrivano.
Melville scrisse questo racconto nel 1851, quaranta anni prima della nascita della psicologia moderna e del lavoro di Kanner e Asperger. Sembra che lui stesso fosse nello spettro e che il personaggio di Bartleby lo rappresentasse. La storia è narrata in prima persona da un avvocato privo di ambizioni.
Un uomo che fin dalla giovinezza è stato sempre profondamente convinto che la via più facile sia la migliore
Aumentando il lavoro, si trova costretto ad assumere un altro scrivano.
Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby.
All’inizio Bartleby colpisce positivamente il narratore per la solerzia nello svolgere il lavoro assegnato ma, unica pecca, fa tutto meccanicamente, senza la minima emozione. Quando inizia un compito deve necessariamente portarlo a termine. Non si distrae, sembra anche saltare il pasto. È un comportamento che si potrebbe inserire nello spettro autistico, confermato anche dallo sguardo che sembra vacuo.
Non mi guardò mentr’io parlavo, bensì teneva lo sguardo fisso sul mio busto di Cicerone, che, essendo io seduto, ergevasi direttamente alle mie spalle, a circa sei pollici sopra il mio capo
A Bartleby viene assegnata una scrivania accanto a una piccola finestra che affaccia sul muro dell’edificio di fronte, così alto da lasciar passare poca luce.
Per lunghi periodi egli restava all’impiedi innanzi alla sua pallida finestra oltre il paravento, guardando là fuori quel cieco muro di mattoni
La prima volta che Bartleby pronuncia la frase che lo caratterizzerà è in risposta a una richiesta che probabilmente assume ai suoi occhi la connotazione di un comando. «Avrei preferenza di no». Il volto rimane inalterato, non un segno di turbamento, d’inquietudine, di collera anche quando, alla sorpresa iniziale, il narratore attraversa vari stati d’animo fino alla rabbia.
Ma v’era qualcosa in Bartleby che, non soltanto stranamente mi disarmava, ma financo, in modo assai sorprendente, mi toccava e sconcertava
Comincia così ad osservarlo con più attenzione e si accorge che non esce per andare a mangiare ma si fa portare dei biscotti allo zenzero da un altro scrivano. La monotonia dell’alimentazione è un altro indizio che conferma l’ipotesi dell’autismo e la scelta dello zenzero è quasi un controsenso alla mancanza di azione di Bartleby.
Cos’è lo zenzero? Una polvere aromatica e piccante. E forse Bartleby aromatico e piccante? Nient’affatto. Lo zenzero, quindi, non aveva alcun effetto su Bartleby. Probabilmente egli aveva preferenza di no, che non avesse effetto alcuno
Bartleby vive come un eremita all’interno del suo spazio lavorativo delimitato da una finestra che affaccia sul muro di fronte e da un paravento verde che lo separa dal resto dello studio. È l’ultimo a lasciare il lavoro ed è grande la sorpresa del narratore quando passando in ufficio di domenica mattina, lo trova lì in maniche di camicia, e per il rimanente in un deshabillé sbrindellato in modo non comune dicendo caldamente che gli dispiaceva ma che proprio al momento era occupato e…per adesso aveva preferenza a non farmi entrare
Il suo immobilismo evolve nel momento in cui il narratore si trova costretto dapprima a licenziarlo (senza riuscirci) e poi esso stesso a trasferirsi in un altro locale pur di liberarsi dell’atteggiamento di Bartleby che lo ha fatto diventare lo zimbello tra i suoi colleghi. No; al momento avrei la preferenza a lasciar le cose come stanno. Molto si è discusso se il comportamento di Bartleby debba essere ricondotto alla schizofrenia o all’autismo. Sicuramente non si tratta di un atteggiamento consapevole volto ad avere un vantaggio: alla fine Bartleby muore perché si rifiuta di mangiare…aveva preferenza di no. Melville non da spiegazione sul perché questo succeda. È probabile che tutto il mondo di Bartleby fosse circoscritto in quell’angusto spazio dello studio, con la piccola finestra rivolta verso la più rassicurante delle visioni: un muro.
Gabriella La Rovere