E’ sempre vero che i figli autistici distruggano i matrimoni?
Qualche giorno fa è uscito un articolo interessante sul Washington Post: Sara Luterman, giornalista freelance, racconta del 33esimo anniversario di matrimonio dei suoi genitori, spunto che ha utilizzato per parlare di autismo. Il suo. Diagnosticata tardi (aveva una ventina d’anni), Sara racconta di essere sempre stata una ragazza un po’ diversa: ha sempre fatto fatica ad avere amici, ma era estremamente interessata a interagire con adulti, con cui riusciva a comunicare con molta più facilità. Racconta che a cinque anni sapeva perfettamente la differenza fra vene e arterie, e come funzionavano, ma che non sapeva come fare per avere degli amici, e infatti venne ripetutamente cacciata dal coro della scuola perché faceva movimenti strani con le mani, e bullizzata dagli insegnanti e dai suoi compagni a scuola. “Non sono un mostro,” scrive Sara, “Sono una persona con una disabilità abbastanza comune: una persona su 59 in America, è autistica”.
Ma dell’autismo che la caratterizza ha parlato soprattutto di un aspetto che la irrita molto, e cioè come ci sia ancora una falsa eppur diffusa credenza che abbia effetti terribili sulla famiglia, e in particolare sui genitori. Infatti, ricorda ai suoi lettori, grazie a diversi studi, pare che non sia vero che i genitori di fili autistici divorzino più di quelli con figli neuro tipici.
Si chiede come mai questa credenza sia così difficile da dissipare, e ogni volta che sente che qualcuno la sostiene, viene colta dalla terribile sensazione che la sua esistenza sia causa di dolore per i suoi genitori, e infine come queste false nozioni, che lei definisce tossiche, possono davvero danneggiare la popolazione autistica.
La sua conclusione suona estremamente famigliare alle mie orecchie: il problema è che la disabilità in generale e l’autismo in particolare sono ancora considerati problemi talmente distruttivi e enormi dalla società, che l’aspettativa dei genitori che vivono questa realtà sia fin dall’inizio negativa. “Se cambiano le aspettative sull’autismo”, scrive Sara, “cambia anche lo stress che i nostri genitori provano per la nostra esistenza. I genitori dei figli autistici potrebbero essere più felici se riuscissero davvero a eliminare questi miti tossici, o fare in modo che non entrino mai nelle loro vite”.
Ho pensato moltissimo a queste parole, anche perché è un po’ il mio cavallo di battaglia da anni: la diversità in generale spaventa perché non è conforme a una realtà che noi abbiamo stabilito essere l’unica possibile. E qualsiasi cosa che esce dai ranghi di questa ‘normalità’, invece che essere in qualche modo celebrata, diventa un dramma. Ma sono cose che ho sempre pensato io, che non sono autistica e che malgrado abbia un figlio a basso funzionamento, non provo sulla mia pelle le difficoltà che prova Luca e chi è come lui, per cui il mio punto di vista sembra un po’ meno credibile. Sentire questa prospettiva da una persona autistica, invece, mi rincuora, in qualche modo, perché mi fa capire di essere sulla strada giusta.
Posso dire una cosa per certo: essere genitori di un figlio a basso funzionamento è certamente più difficile, più fisicamente impegnativo e sì, anche più stressante. Ma questo non è legato allo stigma della disabilità: è un fatto oggettivo, che non si può ignorare. Immagino spesso un mondo in cui la disabilità (termine, tra l’altro, che bisogna assolutamente togliere dal vocabolario, se vogliamo davvero cominciare a fare un passo concreto verso l’eliminazione di stereotipi) non sia un modo per definire certe persone, ma che sia considerata un aspetto dell’essere umano.
Ma, lo so bene, la strada è talmente lunga che a volte mi chiedo se davvero valga la pena continuare a provarci.
Marina Viola
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