Ayesha: il “cervello ribelle” che protesta mentre sfila per Gucci in camicia di forza
Proclamiamo da oggi una nuova madrina di noi “Cervelli Ribelli”, si tratta di Ayesha Tan Jones, conosciuta anche come Yaya Bones, artista e modella che ha sfidato con coraggio un gigante come Gucci, rovinandogli la festa. E’ accaduto durante la sfilata spring-summer 2020, che la maison fiorentina aveva deciso di aprire con una linea di 60 abiti bianchi costruiti con casacche abbottonate sulla schiena, che, senza ombra di equivoco, dovevano sembrare, o richiamare, delle camicie di forza.
Anche la stessa location della sfilata era stata allestita citando l’ambientazione di un ospedale psichiatrico. Immersa nel bianco allucinante e attraversata da una passerella mobile, color verde ospedaliero, che trasportava i modelli immobili sotto luci da sala operatoria. Evidentemente si era allestito una sorta di prologo che colpisse con un effetto emotivo forte, prima dello show vero e proprio, in cui i modelli sfilavano con gli abiti della collezione.
A rompere l’incanto immaginato da Alessandro Michele, che è direttore creativo della Gucci e ideatore della passerella dei matti, è stata proprio Ayesha che, durante la sua sfilata, ha mostrato le palme delle mani dove aveva scritto con un pennarello “Mental health is not fashion”, la salute mentale non è moda. Molti tra il pubblico hanno capito e si sono alzati in piedi.
Yaya Bones sul suo profilo Instagram ha spiegato il motivo della sua protesta raccontando di aver vissuto sulla sua pelle la battaglia con la salute mentale, attraverso familiari e amici che hanno sofferto di depressione, ansia, bipolarismo e schizofrenia, quindi giudicava doloroso e carente di sensibilità per una grande casa di moda come Gucci usare questa immagine in un’occasione fashion.
“Molte persone con problemi mentali sono ancora stigmatizzate sul luogo di lavoro e nella vita quotidiana, mentre molte persone non considerano i problemi mentali come vere malattie in quanto non visibili. Le camicie di forza sono simboli di un tempo in cui la medicina era crudele e la malattia mentale non era capita, di un tempo in cui alle persone venivano tolti libertà e diritti mentre venivano abusati e torturati dalle istituzioni. È di cattivo gusto per Gucci usare l’immagine delle camicie di forza e outfit che alludono ai pazienti psichiatrici mentre sono immobili su nastri trasportatori come fossero pezzi di carne da macello. Mostrare queste malattie come oggetti di scena per vendere i vestiti nel sistema capitalista di oggi è volgare, banale e offensivo per quei milioni di persone nel mondo afflitte da questi problemi”.
Un gesto di grande coraggio e di orgoglio da vero “Cervello ribelle”. Il profilo Instagram di Yaya Bones ha come foto di status la sua mano con all’interno la tessera di un puzzle, che è anche internazionalmente inteso come il simbolo della neurodiversità.
Meno chiaro è l’intento di un brand così prestigioso nell’aver evocato un simbolo così grondante di sofferenza, come quello dello strumento di contenimento e coercizione per eccellenza delle persone con cervelli non funzionanti secondo “le regole”. La risposta ufficiale della Maison è stata che: “Le uniformi, i vestiti utilitari, gli abiti normativi, incluse le camicie di forza, sono state incluse nella sfilata primavera-estate 2020 di Gucci come la versione più estrema dell’uniforme imposta dalla società e da chi la controlla” . Specificando che i capi “incriminati” erano unicamente funzionali allo show e non saranno venduti.
Se l’intento era di creare un “caso” alla fine se ne è parlato. Senza bisogno di scendere nei sentieri limacciosi del politicamente correttissimo, si fa comunque fatica ad assimilare la rievocazione, sinistra e soffocante, dell’ospedale psichiatrico con l’dea della moda, che dovrebbe essere associata all’idea di estro, leggerezza, fascino.
Vedere donne sfilare in camicia di forza non può che ricordarci quanto scritto nel saggio di Annacarla Valeriano, «Malacarne» (Donzelli), che documenta come i manicomi negli anni trenta in Italia fossero usati anche per per reprimere i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi.
Avevo raccontato alla mia radio anni fa alcune di quelle storie prese dagli archivi dei luoghi di contenzione negli anni non troppo remoti in cui bastava dire che una familiare era matta per levarsela per sempre dai piedi, a suo tempo toccò pure alla prima moglie di Mussolini.
E’ evidente che lo stigma attuale e persistente sui “cervelli ribelli” (basti la gazzarra mediatica di questi giorni sulla paladina Asperger della battaglia sul riscaldamento globale Greta Tumberg, i cui detrattori hanno coniato il neologismo discriminatorio “gretinismo” ), chi è diverso dentro nella scatola cranica è al di sotto della linea d’orizzonte di chi studia le strategie di lancio di un settore così importante come quello della moda.
I creativi avranno pensato che sul disagio mentale si potesse tranquillamente costruire una campagna a effetto, senza che nessuno dovesse aversela a male. I “matti” non sono considerati categoria intoccabile come molte altre fragilità, difficile vederli in giro e forse c’è la convinzione che sono tutti estinti, accennare quindi agli strumenti di tortura a loro associabili viene visto come organizzare una rievocazione storica, come quando nelle pro loco di paese inscenano cortei di figuranti in armatura e alabarda per la festa del santo patrono.