L’assistente degli alunni disabili contro le cooperative: “Sono solo un’AEC ma voglio il pane e le rose per me e i bambini con cui lavoro”
Com’ era prevedibile ha creato molte reazioni il pezzo da noi pubblicato ieri sulla protesta degli AEC (gli assistenti educativi che si occupano a scuola dei bambini con disabilità) che chiedono al Comune di Roma l’abolizione delle cooperative sociali private che gestiscono il loro lavoro, un servizio pubblico, per conto del Campidoglio.
Gli assistenti scolastici dei bimbi disabili al Comune di Roma: Basta schiavitù, cancellate le cooperative
Gli AEC, in pratica, si sentono sfruttati e stritolati in un meccanismo perverso che genera sovraccarichi di lavoro mal retribuito, precarietà, incertezza sul futuro, stress e malesseri che possono mettere a rischio inevitabilmente la qualità del lavoro scolastico. E poiché il personale AEC è fondamentale per il benessere dei nostri figli questo problema dovrebbe coinvolgere anche le famiglie degli alunni speciali perché la scuola è un tassello fondamentale per la loro crescita, l’acquisizione di competenze e autonomie, per l’integrazione nella realtà e nella società: l’istituzione scolastica resta l’unica vera chance per i nostri figli “diversi” di entrare nel mondo vero, quel luogo dove creare le basi per un futuro inclusivo che continui anche da adulti, è la porta d’accesso per una vita dignitosa. Per questo è necessario che le persone preposte all’ educazione dei propri figli abbiano gli strumenti e la serenità per poter svolgere questo prezioso compito.
Ed ecco due lettere che sono arrivate a redazione@pernoiautistici.com dal mondo degli AEC. Le pubblichiamo qui perché vogliamo far conoscere a più persone questo problema e sensibilizzare soprattutto le famiglie dei bambini che tutti i giorni vanno a scuola, che è poi la loro seconda casa.
SONO SOLO UN’ AEC
Mi chiamo Paola, che non è molto importante. I nomi li dimentico subito, non sono che etichette attaccate alla nascita da qualcun altro. Mi chiamo Paola e lavoro a scuola con bambini disabili. Sono una psicologa, ma anche questo, forse, non è importante. E’ importante quello che faccio e come lo faccio. Non sono un’insegnante di sostegno; il mio lavoro non ha neanche un nome vero: tanti anni fa c’erano gli assistenti educativi comunali, poi siamo arrivati noi, gli assistenti educativi culturali delle cooperative sociali, adesso il Comune di Roma ci chiama Oepa, operatori educativi per l’autonomia. Ho cominciato questo lavoro per caso, perché all’ Università un professore, che non amava i giri di parole, mi ha detto che non mi conosceva e quindi non mi avrebbe fatto entrare nella scuola di specializzazione.Un dramma. Poi ho scoperto che non esistono drammi così; ho scoperto che non è il titolo di dottore che ti qualifica ma il cuore, l’anima e l’amore che ci metti. E la ricchezza, enorme, incalcolabile, che ogni bambino che ho seguito in questi anni mi ha dato. Nonostante tutto. Perché quasi nessuno, al di fuori della scuola, sa chi siamo e cosa facciamo. Perché se il bambino è assente devo andare via, perché non ci pagano il pasto anche se stiamo con i bambini a mensa, perché non ci possiamo ammalare, visto che non ci pagano la malattia, perché alcune scuole pretendono che “portiamo i bambini in bagno”, perché “devi fare tutto quello che ti dicono le maestre, sei l’ultima ruota del carro”, come mi disse un mio coordinatore molto pragmatico anni fa. Mi avevano quasi convinta. Poi incontro una persona meravigliosa, un Dirigente Scolastico d’altri tempi; si chiamava Domenico Bernardini e dirigeva una scuola di frontiera, una di quelle dove ogni senso di pietà sembra dissolversi nel degrado delle periferie romane, un posto dove i bambini sono piccoli adulti con lo sguardo di chi già sa come va il mondo. Un giorno sto lì, appoggiata alla porta della mensa e dal nulla appare lui, il Bernardini, vestito come un dirigente del PCI degli anni ’50, mi sorride, mi fissa e mi chiede: “…stavo giusto chiedendomi a chi appartiene quel sorriso”. Resto di sasso, mi sento piccolissima, lo guardo e gli rispondo: “…sono solo un’ Aec”. E lui di rimando mi risponde che sono una colonna della scuola, che sto garantendo ai bambini che seguo un diritto fondamentale e che il mio lavoro è essenziale per il buon funzionamento della scuola tutta. Ecco, mi sveglio. Ci rifletto. Sta tutto in quel “sono solo un’Aec” che si nasconde il sentirsi inadeguati, malpagati, sfruttati, in sostanza, estranei e diversi. E capisco. Capisco che per garantire uguaglianza bisogna essere uguali, che per difendere gli altri bisogna difendere sé stessi e l’amore per ciò che si fa.E, con un lavoro così, ciò che si fa diventa necessariamente anche ciò che si è. Non può essere altrimenti. Ho imparato che i miei bambini vogliono cose diverse da quelle che voglio io, o qualunque altro adulto. Ho imparato che vogliono dirci, in ogni modo, che vogliono poter essere se stessi, con le loro stereotipie, i loro interessi assurdi per qualunque adulto e qualunque “bizzarria” gli passi per la testa. Ho imparato da loro, inevitabilmente, molto più di quanto credessi di potergli insegnare, ho imparato l’ascolto e la pazienza. Ho imparato il valore della difformità, della variazione sul tema. Ogni tanto qualcuno mi chiede perché continuo a fare questo lavoro con le difficoltà e le condizioni di sfruttamento che comporta. E l’unica cosa che mi viene da rispondere è che sono fortunata, perché faccio un lavoro bellissimo e che amo. Adesso lotto, con altri meravigliosi colleghi, per far sapere che non siamo solo Aec, che vogliamo il pane e le rose, per noi e per i bambini che ci sono affidati. Aldilà di ogni retorica da ricorrenza e da ogni buonismo sull’ integrazione dei disabili, che tanto tutti ne parlano e poi a casa a pensare ad altro. Perché credo nella solidarietà, nella convivenza civile e in una società di persone libere, uguali nelle differenze. Ogni mattina decido se voglio essere un leone o una gazzella e scelgo di continuare a fare questo lavoro.
FORMAZIONE: MA QUANTO MI COSTI?
Salve, ho letto l’articolo sugli A.E.C. E l’ho trovato molto sensato e penso che oltre al discorso dei pasti ci sarebbe da approfondire la questione dei corsi. In base alla delibera n 80/17 “Regolamento di Roma Capitale per il Servizio Educativo per l’autonomia di alunni con disabilità” TUTTI (più o meno…) gli operatori definiti in precedenza A.E.C. (Assistente Educativo Culturale) devono obbligatoriamente adeguare il loro profilo professionale per diventare OEPAC (Operatore Educativo Per l’Autonomia e la Comunicazione), cioè, la stessa cosa ma con nome differente. Fin’ora, però, quello che si è riscontrato è solo una grande confusione da parte di tutti. Parliamo di 322 ore, quindi, un corso che prevede prima di tutto l’impiego di molto tempo oltre all’oneroso costo che ci viene richiesto e che, come ci è stato detto, non influenzerà nè il livello contrattuale, nè il compenso. La mattina siamo impegnati a dare tutti noi stessi nella scuola a fianco dei ragazzi che necessitano il nostro supporto, il pomeriggio c’è chi continua a svolgere lo stesso ruolo e chi, per necessità, ha altre mansioni. Nel tempo che resta(va), come tutti, ci si arrangia(va) per organizzare i propri affari(casa, spesa, famiglia, animali domestici, ecc…). Ora ci viene chiesto, dopo le ore lavorative, di impegnare altre quattro ore il Martedì, quattro ore il Giovedì e tutti i Sabati dalla mattina alle 9.00 al tardo pomeriggio per affrontare questo corso(non considerando le ore di macchina per arrivare in sede e la spesa per la benzina o per i biglietti dei trasporti pubblici e il fatto che non percepiamo lo stipendio da giugno). E’ una cosa frustrante e debilitante, uno sforzo sovrumano. Una volta usciti da lì la testa gira al pensiero di dover fare un’altra ora di macchina o treno per tornare a casa dove ci aspettano tutte le cose che sono state lasciate indietro. Alla fine, ci si addormenta anche senza aver cenato e ci si sveglia stravolti per la stanchezza del giorno prima e per la nuova ed impegnativa giornata che si ha di fronte. Le energie ci vengono letteralmente strappate via. Il tempo per corsi del genere è giusto che lo abbiano ragazzi più giovani che, finito il percorso di studi, hanno necessità e voglia di approcciare con questo mondo tanto bello e delicato, ma, chi opera da tanti anni nel settore dovrebbe avere modo di godere di una certa tranquillità lavorativa (seppur tenendosi aggiornato) senza dover stare ogni anno sui “carboni ardenti” come, invece, succede. Come si fa a dare il massimo quando hai le batterie scariche?